giovedì 12 febbraio 2009

Sarkozy, il lavoro e il capitalismo: una destra “socialista” ?


di Daniele Zandonà


Gli ultimi interventi del capo di stato francese risultano sorprendenti e a tratti spiazzanti per l'informazione d'oltralpe. Il presidente neogollista, esponente di un centrodestra liberalista, in un dibattito televisivo svoltosi il 5 febbraio a Tolone, parla di una maggiore redistribuzione dei redditi delle imprese a favore dei lavoratori e non soltanto degli imprenditori; di misure sociali volte a sostenere, dopo anni di favoritismi verso il capitale, il valore della forza lavoro. Siamo sicuramente ancora molto lontani da politiche che si possano definire socialiste in senso stretto, ma almeno nell'ambito delle semplici dichiarazioni, si tratta comunque di una svolta da non sottovalutare.


Effetti della crisi economica mondiale

Il dissesto finanziario esploso nello scorso autunno, che ha bruciato miliardi in ogni parte del mondo e colpito molti risparmiatori, continua a sortire i suoi effetti anche in campo di teorie e politiche economiche. Analogamente alla crisi del 1929, che portò molti sostenitori del liberismo e del capitalismo ad abbracciare un approccio maggiormente regolatore e redistribuitivo, auspicando una maggiore regolazione statale e internazionale dei meccanismi del mercato, tra i quali ricordiamo ad esempio il grande teorico e studioso John Dewey, anche questa crisi, dalle dimensioni e dagli effetti apparentemente molto minori almeno per il momento, ha condotto sin dal suo principio ad un “cambio di rotta” nel pensiero di molti politici ed economisti. La “mano invisibile” del liberismo teorizzata secoli or sono da Adam Smith si è rivelata, per l'ennesima volta, fin troppo manovrabile in senso negativo dalla sregolatezza di un mercato che travalica i confini nazionali e dalla cupidigia di speculatori privi di scrupoli; di fronte al dissesto ecco quindi fiumi di pensatori animare i dibattiti auspicando un maggiore controllo e un ripensamento delle regole che negli ultimi decenni hanno permesso di giungere a questa cataclismatica conclusione. Il capo dell'eliseo non è stato da meno, e già dallo scorso novembre all'assemblea delle nazioni unite dichiarò senza mezzi termini che “Il capitalismo va regolato”. Ora queste recenti affermazioni riguardanti la politica interna, sembrano confermare la direzione intrapresa verso un approccio più attento al sociale di quanto non ci si possa aspettare da un politico di destra.

Reazioni e considerazioni

Il discorso del presidente francese è risultato, agli occhi dell'informazione nazionale, un atto innanzitutto di pragmatismo politico: la tensione negli strati più bassi della popolazione va diffondendosi e anche i sindacati, che si incontreranno con le imprese il 18 febbraio per stabilire una nuova discussione, muovono sul piede di guerra; pertanto tali dichiarazioni hanno anche l'effetto di creare prospettive positive che possano, almeno per ora, tenere sotto controllo l'agitazione. Al di là delle considerazioni da “realpolitik”, resta da dire che almeno nell'ambito delle intenzioni queste esternazioni hanno raccolto riscontri positivi e consensi, anche da parte di editorialisti ed esponenti della stampa più vicina alla sinistra. Resta per tutti quindi l'attesa delle concrete misure dei prossimi mesi, per verificare se davvero la politica economica del centrodestra abbia intrapreso una storica svolta.
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venerdì 30 gennaio 2009

Piazza Farnese, la mafia, Di Pietro, i media.


di Laura Liucci

Sembrava di sentirli i pensieri della piazza. Borsellino muore ogni giorno, da lassù. Falcone lo stiamo uccidendo ancora e ancora. I loro cari non avranno più la possibilità di pensare al loro sacrificio come a qualcosa che abbia davvero avuto un valore per l’Italia. E ancora, come si può restare ciechi e sordi davanti a una situazione tanto delicata, ma soprattutto: cosa resterà di questa giornata? Cosa arriverà a chi oggi non è qui? Niente. Domani nessuno ne parlerà.


Sbagliato. Il giorno successivo ne parlavano tutti. Titoloni a centro pagina, aperture dei telegiornali. . Ma non era davvero questo che pensavo avrebbe meritato la luce dei riflettori. Alla ribalta mediatica non sono salite le parole dei familiari delle vittime di mafia che, sul palco, una ad una, chiedevano alle istituzioni perché ancora oggi non possono sapere chi sono i mandanti e il perché della morte di padri, figli, fratelli, con alle loro spalle le immagini del capo del governo – sorridente – abbracciato a Dell’Utri e a Mangano. Alla ribalta non sono salite le parole di Salvatore Borsellino, che accostava la morte di suo fratello alla morte morale e lavorativa dei magistrati – De Magistris, Forleo, Nuzzi, Verasani, Apicella - a cui non è più permesso indagare su chi non deve essere indagato, su chi non deve essere toccato. L’attenzione dei giornalisti non è stata richiamata neanche dalle parole dei loro colleghi Travaglio e Vulpio che, non nuovi a questo tipo di iniziative, continuano a cercare di informare attraverso mezzi come la rete o le piazze, dove nessuno – ancora – può vietargli di scrivere o parlare. Quando è stato il turno di Beppe Grillo e delle sue accese e colorite invettive ho davvero creduto di veder uscire dalle sue labbra i titoli a caratteri cubitali dei giornali del giorno seguente. Pensavo, guardando lo slogan della manifestazione: “IO SO”.


Invece io non sapevo. Non sapevo che di una bella giornata che celebrava la democrazia – quello che ne è rimasto in Italia era in piazza ieri – sarebbero rimasti solo vuoti e pretestuosi attacchi incrociati, senza colore e senza dio, alle parole dell’On. Antonio Di Pietro, reo di aver “offeso” il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, giudicando “poco da arbitro e poco da terzi” il contegno da lui assunto nelle vicende giudiziarie che hanno animato ultimamente il dibattito politico. Un garante dello Stato di diritto, che sancisce la divisione dei poteri su cui si basano le democrazie moderne, può davvero ritenersi “offeso” se viene apostrofato di restare in silenzio davanti a vicende come quella della sospensione di Apicella – un esponente del potere giudiziario - chiesta dal Ministro della Giustizia Alfano – un membro dell’esecutivo? .
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giovedì 15 gennaio 2009

Congo: il massacro silenzioso. Una terra condannata alla guerra dalla propria ricchezza.


di Laura Liucci
Ci sono guerre che non godono della luce dei riflettori, delle attenzioni della comunità internazionale, dei corsivi indignati dei columnist, dei soundbite imbalsamati dei politici nei telegiornali, delle bande in sovrimpressione della Cnn. Quella che vogliamo raccontarvi è una di queste. E’ una carneficina che da anni intorpidisce le acque dei Grandi Laghi. Sono diamanti insanguinati in cambio di armi, donne da violentare e bambini ad imbracciare fucili. E’ l’ennesimo massacro di civili inermi. E’ l’Africa in guerra. E’ il Congo dalle immense ricchezze minerarie e dai pochi, pochissimi, amici occidentali. Chi trova ancora il coraggio di entrarvi per documentare la situazione nella regione del Kivu parla di questo: esecuzioni sommarie, profughi in fuga, bambini soldato nascosti solo alle telecamere dell’occidente.

La situazione attuale
Scenario di continue incursioni di ugandesi e ruandesi durante la guerra congolese (1998-2003), la regione del Kivu è una delle zone minerarie più ricche del mondo, e ciò l’ha resa da sempre principale obbiettivo del vicino Ruanda, tanto politicamente forte, quanto povero di risorse. Quando ad agosto il leader dei ribelli tutsi Laurent Nkunda, alla guida del CNDP (Congresso nazionale per la Difesa del Popolo), ha iniziato la sua avanzata volta ad acquisire il controllo della provincia orientale, si è parlato di una campagna condotta alla ricerca degli Hutu confluiti in massa in Congo nel 1994 dal Ruanda post- genocidiario. Ma sono le immense riserve di coltan, di diamanti e di rame ciò a cui Nkunda mira, e a cui mira il Ruanda finanziando il CNDP - composto in gran parte da ex militari dell’esercito regolare di Kigali - nella speranza di un futuro Kivu indipendente dal governo centrale di Kinshasa.

A rispondere agli attacchi del CNDP c’è l’esercito regolare congolese, ormai affamato e in rotta, appoggiato dalle milizie di ribelli filogovernativi Mai- mai, e dal Monuc, la missione delle Nazioni Unite di stanza in Congo. Con 17.000 unità, è il più imponente stanziamento di caschi blu al mondo. Inutile. Il Monuc fa quello che può per quanto riguarda il passaggio di aiuti umanitari e servizi alla popolazione (e a volte neanche quello, come nel caso del massacro di Kiwanja che ha visto i soldati del Monuc, trincerati nella loro base, negare rifugio a civili in fuga dalle milizie di Nkunda). Ma il mandato concessogli dall’Onu non permette di ingaggiare combattimenti con i ribelli. Sono lì, hanno le armi, ma non possono usarle. Tra vari cessate il fuoco, rispettati e non, e dopo la fallimentare conferenza di Nairobi, gli scontri continuano e l’obbiettivo di Nkunda è ormai a portata di mano.

I precedenti
La recente crisi congolese è solo l’ultimo capitolo di una guerra che dura da oltre 25 anni e che ha visto coinvolti due generazioni di uomini e donne di Ruanda, Congo e Uganda. L’inizio può essere individuato nella presa del potere di Museveni nei primi anni ‘80 in Uganda (le stime parlando di 300.000 vittime), per passare poi agli 800.000 morti, tra Tutsi e Hutu moderati, dei 100 giorni del Ruanda genocidiario del 1994. E’ ormai noto che dietro l’omicidio dell’allora presidente Juvénal Habyarimana, abbattuto con il suo aereo mentre sorvolava Kigali - e pretestuosamente orchestrato al fine di far ricadere la colpa sui Tutsi – ci fossero esponenti in vista del governo, Paul Kagame –succeduto alla presidenza - su tutti. E oggi è grazie all’ immunità presidenziale che l’Interpol non ha potuto emettere un mandato contro di lui, come invece ha fatto con 6 dei suoi maggiori luogotenenti.
I partner occidentali
In Africa vige da sempre il meccanismo delle partnership - dei patrocini e degli aiuti che le grandi del mondo destinano alle nazioni africane in cambio di corsie preferenziali nell’acquisto di materie prime e, in tale contesto, l’Uganda e il Ruanda sono notoriamente legate a Gran Bretagna e Stati Uniti. Durante le guerre che hanno visto il Congo martoriato dalle incursioni ruandesi e ugandesi negli ultimi 25 anni, costate la vita a circa 5 milioni di persone, gli eserciti sono stati finanziati, e in alcuni casi addestrati, da USA e Gran Bretagna. E mentre Francia e Spagna tentavano di far processare Kagame dal Tribunale Internazionale per il Ruanda, gli USA “consigliavano caldamente” al magistrato incaricato di sospendere le indagini sul presidente ruandese, pena il sollevamento dall’incarico. E presupponendo che le due potenze occidentali non facciano beneficienza, ma che beneficino direttamente dei bottini congolesi, si possono leggere in chiave diversa anche le vicende degli ultimi mesi. Le mani legate con cui il Monuc sta agendo in Congo, ad esempio. Le Nazioni Unite hanno dichiarato ufficialmente di non aver accordato maggiore libertà di movimento ai caschi blu per non rischiare di restare invischiati i questioni interne - ai posteri la sentenza di come l’ONU possa osare utilizzare una tale motivazione di fronte a un massacro lungo 25 anni. Ma forse, pensando che Usa e Gran Bretagna, in sede di Consiglio di Sicurezza, godono del diritto di veto, la vicenda può essere letta da un’altra angolazione. La stessa per cui nel 1994 i caschi blu sono rimasti a guardare in silenzio il massacro di 800.000 ruandesi, uccisi – casa per casa - a colpi di macete.




La reticenza dei media
La “questione etnica”, che qualcuno continua immotivatamente a mettere in primo piano, dovrebbe oramai aver lasciato il posto alla consapevolezza degli enormi interessi economici che muovo la vicenda. Non per il giornalismo mainstrean, ad ogni modo. Sarebbe stato a dir poco ingenuo sperare di vedere l’apertura di un Tg apostrofare Paul Kagame - sorridente e distinto in visita alla Casa Bianca nel 2006 - come “il presidente ruandese, criminale di guerra e principale responsabile del genocidio del ‘94”. Oggi la televisione e i media continuano a parlare della guerra che Nkunda starebbe portando avanti per scovare gli Hutu genocidiari. Dopo 14 anni, al massimo potrebbe combattere contro i loro figli. Come in passato, come nell’Africa coloniale – ma possiamo davvero parlare oggi di un post- colonialismo? - si scontrano qui poteri e interessi occidentali. Sulle spalle di chi ha perso la voce per gridare.
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venerdì 19 dicembre 2008

Cicala o formica? Ritratto dell’italiano medio in tempo di crisi economica

di Alessio Liverziani


Crollano gli investimenti, calano i consumi, l’Italia è ufficialmente in recessione tecnica. Ma nel vivo della crisi economica l’italiano medio non riesce a rinunciare ai suoi ‘vizietti’.
Si acquistano meno automobili e vestiti, niente più ristorante, ma non si può fare a meno dell’hi-tech, dei prodotti per la persona e della settimana bianca. Boom anche del Superenalotto, segno che la speranza è l’ultima a morire.



I numeri della crisi
L'Istat conferma la sua stima preliminare: l'Italia è in recessione tecnica. Il prodotto interno lordo italiano nel terzo trimestre dell'anno è diminuito dello 0,5% rispetto al trimestre precedente e dello 0,9% nei confronti del terzo trimestre del 2007. Si tratta del secondo trimestre consecutivo con crescita in negativo (-0,4% nel secondo trimestre 2008). E' il dato peggiore dal 1998.
E allora vediamo come si orientano gli italiani in questo periodo di vacche magre. L'indicatore dei consumi di Confcommercio relativo al mese di ottobre registra una nuova flessione nei consumi, l’ottava consecutiva che chiude i primi 10 mesi dell’anno con un calo generalizzato pari al 2,1% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.
Si ridimensiona, dunque, la spesa delle famiglie e cambiano di conseguenza le abitudini d’acquisto, ma in modo a dir poco anomalo.





Cala la domanda di beni e servizi
Per i beni si registra un -3,1% nel mese di ottobre, mentre per i servizi solo una modesta crescita dello 0,7%, anche se, in media, nei primi dieci mesi del 2008 la domanda rivolta al comparto dei servizi registra una flessione dello 0,6% a fronte del +2,3% del 2007. Analogo peggioramento è registrato anche per la domanda di beni (-2,7% a fronte del +0,8% per il 2007). Particolarmente accentuata anche la flessione della domanda di beni e servizi per la mobilità (-13,8%), soprattutto nel settore dell'auto e del trasporto aereo. Pesante, infine, il calo negli alimentari e tabacchi: le quantità di consumi nel settore, a ottobre, hanno registrato una flessione del 2,8% e del 3,5% nei primi dieci mesi del 2008.





Cresce la spesa per lo svago
Interrompendo una tendenza che durava da mesi, invece, la domanda di beni e servizi ricreativi registra un aumento del 2,4% dovuto principalmente alla forte crescita della spesa per lotterie e giochi a premi, in particolare del Superenalotto, per il quale gli italiani hanno speso circa il 230% in più rispetto alla media mensile degli ultimi due anni. Prioritari, nonostante la crisi, restano poi i telefonini e i computer di ultima generazione: la domanda relativa ai prodotti hi-tech si è confermata la componente più dinamica della spesa delle famiglie, con una variazione del +6,6%. Ma finiscono nel carrello della spesa anche creme e prodotti di bellezza, con un aumento delle quantità vendute (+2,3% in termini tendenziali) determinato prevalentemente dalla domanda di prodotti farmaceutici. E come se non bastasse la Confesercenti registra un aumento delle prenotazioni per le vacanze natalzie: quest’anno si metteranno in viaggio circa 15 milioni di persone, due milioni in più rispetto al 2007.
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giovedì 18 dicembre 2008

Affarismo, corruzione, tangenti: tutto il marcio del Partito Democratico.


di Valeria Mencarelli


Dato che il modus operandi sembrano conoscerlo bene, dal Pd potrebbero pagare una tangente per far estendere il lodo Alfano a tutta la classe politica, opposizione compresa: si risparmierebbero un sacco di grane. Prima fra tutte la bomba napoletana. La notizia era nell’aria già da un po' di tempo, se ne parlava ma non se ne scriveva, alla fine le riserve sono state sciolte e la tempesta giudiziaria si è abbattuta su Napoli e Provincia, facendo finire in manette più di qualcuno.


Per l’esattezza, va detto che in carcere per ora c’è solo l’imprenditore partenopeo Alfredo Romeo, mentre altre tredici persone sono agli arresti domiciliari, e per due parlamentari – Bocchino, di An, e Lusetti, del Pd - sono state richieste le intercettazioni telefoniche. L’indagine parte da lontano e si è ramificata con il tempo, ma le accuse che pendono sulle teste degli indagati sono chiare: associazione a delinquere finalizzata alla turbativa di appalti, abuso d’ufficio, corruzione e rivelazione di segreti d’ufficio.

Il “sistema Romeo”

L’inchiesta avviata dai pm Vincenzo d’Onofrio e Raffaello Falcone riguarda in particolare quattro appalti deliberati dal comune che sarebbero andati a finire nelle mani dell’imprenditore in cambio di tangenti in denaro e “vari benefici”, come si legge nel comunicato stampa diramato dal Tribunale di Napoli. Di questi quattro, il più ricco era il Global Service, che aveva come oggetto la manutenzione delle principali strade della città ed un valore approssimativo di 400 milioni di euro. La delibera fu varata, ma il relativo appalto mai stato bandito, per mancanza di copertura finanziaria. In realtà i magistrati nel comunicato denunciano la fuga di notizie che avrebbe intralciato le indagini e reso più cauti i membri del “Sistema Romeo”. Gli inquirenti sostengono infatti l’esistenza di una vera e propria “struttura organizzata unitaria” sulla base di cui è stato lo stesso Romeo, nel corso degli anni, o gli uomini del suo staff, a redigere i bandi di cui avrebbe poi beneficiato, con il pieno accordo di tutti i soggetti pubblici coinvolti.


Un cancro diffuso

“Mi dispiace che la situazione Napoli si vada ad aggiungere a quella precedente di Pescara”, ha detto il sindaco Rosa Iervolino. Dopo aver sospeso dalla carica gli assessori accusati, “bisognerà riflettere” e decidere il da farsi, sebbene nessun capo penale gravi su di lei. Certo è che per il partito di Veltroni le cose sembrano andare di male in peggio. A Potenza il deputato Pd Margiotta è implicato nell'inchiesta sulle mazzette per l'estrazione del petrolio in Basilicata. A Pescara appena due giorni fa, infatti, è stato arrestato il sindaco e segretario regionale del Pd con gli stessi capi d’accusa. Hai voglia a dire che la sconfitta elettorale in Abruzzo sarà la spinta decisiva verso il cambiamento e l’innovazione. Provate a cercare qualcuno che dica che “si può fare”, non lo troverete più neanche al loft.
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martedì 16 dicembre 2008

Farmaci nel Terzo Mondo: un lusso per pochi


di Riccardo Rapezzi


I Paesi in via di sviluppo contano ogni anno milioni di morti. Malnutrizione e Aids, com’è noto, si piazzano sul podio delle maggiori cause di decesso per adulti e bambini, ma in un teatro simile anche le più innocue malattie infettive, per le società d’Occidente, riducono le già minime possibilità di sopravvivenza. Il problema sta nell’inaccessibilità dei farmaci, troppo pochi o troppo cari: la scarsa disponibilità nella strutture ospedaliere costringe i pazienti a rivolgersi al settore privato, dove però i prezzi sono elevati e si trasformano in un bene di lusso.
A mostrare questo scenario è la sezione Essential Medicines and Pharmaceutical Poilicies dell’OMS, Organizzazione Mondiale della Sanità, con un rapporto che sottolinea la necessità di un ridimensionamento dei prezzi sui farmaci esportati dai Paesi occidentali, adattandoli al costo della vita delle realtà del Terzo Mondo e rendendo così accessibile a tutti il trattamento di numerose patologie perfettamente curabili.

Prezzi da 9 a 25 volte superiori per farmaci generici
Il documento in questione è il risultato di una ricerca in cui sono stati presi in esame i prezzi di 15 medicinali essenziali in 36 paesi, e poi comparati al netto di elementi come l’inflazione locale. Ne emerge che all’interno delle strutture ospedaliere le risorse medicinali variano dal 29,4 al 54,4 per cento e che nel settore privato i prodotti di marca raggiungono prezzi fino a 20 volte superiori rispetto alla media internazionale. Dalle 9 alle 25 volte superiori, invece, per i farmaci generici. La dottoressa Alexandra Cameron, coordinatrice di questa particolare sezione dell’OMS, spiega che per far fronte a una simile realtà, i Governi dovrebbero introdurre politiche nazionali tali da rendere possibile l’accesso a basso prezzo delle medicine essenziali, come l’annullamento delle tassazioni e una massiccia fornitura di farmaci generici. Prosegue poi sottolineando la necessità di un controllo sempre più frequente e capillare dei prezzi da Parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
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lunedì 15 dicembre 2008

Unioni gay abrogate in California: l'ombra dei Mormoni dietro la Proposition 8


di Laura Liucci

Il 4 novembre 2008, mentre l’America sceglieva di guardare al futuro votando l’uomo nuovo, la California sceglieva il ritorno al passato votando Sì al referendum denominato “Proposition 8”. Un passato nel quale un omosessuale non può sposare il proprio partner. La California, considerata da sempre un baluardo liberale in merito a diritti civili, in maggio aveva riconosciuto il diritto dei gay di sposarsi, ritenendo qualsiasi altra soluzione (come unioni civili e coppie di fatto) non paragonabile al matrimonio. Ma da subito si era parlato di un referendum abrogativo che avrebbe chiamato i californiani a deliberare in merito alla decisione della Corte Suprema. E così è stato. Il 52% dei voti ha riportato indietro nel tempo il Sunshine State.


La protesta e le iniziative
La vicenda ha assunto però proporzioni maggiori. E’ ben noto come la campagna “Protect Marriage” sia stata orchestrata dai Mormoni dello Utah, che si sono impegnati in prima persona perché nella vicina California non venisse “snaturata” l’istituzione del matrimonio (che loro, come molte altre chiese, ritengono essere possibile solo per un uomo e una donna). Si ritiene che circa l’80% dei volontari per campagna referendaria fosse mormone, e che la Chiesa di Salt Lake City abbia versato milioni di dollari finanziando la campagna pubblicitaria che ha bombardato la California pre-elettorale, violando inoltre la legge che obbliga di dichiarare qualunque sforzo economico a favore di una campagna elettorale. La “Fair Political Practices Commission” sta indagando in merito alla vicenda.

Nel frattempo i gay d’America hanno preso fortemente di mira la Chiesa Mormone, specialmente a Salt Lake City, capitale storica del culto fondato da Joseph Smith. Nelle settimane seguenti il referendum si sono registrati assalti a varie chiese e numerose manifestazioni. Negli ultimi giorni, dalle pagine del sito Americanblog.com, è partita un’iniziativa che invita al boicottaggio dei brand Utah, del Sundance Film Festival (che si tiene ogni anno a Park City ) e della stagione sciistica che sta per cominciare, al fine di minare “le attività produttive mormoni”, tra le ovvie proteste di chi lamenta l’indiscriminatezza con cui si colpirebbe uno Stato che ospita il 40% di popolazione non mormone.

La situazione mondiale
In America i matrimoni gay sono permessi in Massachusetts e Connecticut (dopo che California, Arizona e Florida li hanno dichiarati di nuovo incostituzionali), mentre lo stato di New York e il Rhode Island riconoscono i matrimoni contratti negli Stati che li permettono. Ad ogni modo in quasi tutti gli Stati dell’ Unione esistono forme di ufficializzazioni diverse dal matrimonio. Nel resto del mondo gli omosessuali possono contrarre matrimonio in Belgio, Olanda, Spagna, Norvegia, Canada e Sudafrica; le unioni civili, sotto molteplici forme e denominazioni, sono presenti nella maggior parte degli Stati europei. In Italia il matrimonio gay non è permesso e ogni sforzo in questo senso è terminato in una sterile sagra di sillabe utilizzate pur di non pronunciare le parole proibite: dai Pacs, passando per Dico e Cus e terminando con i DiDoRe, sembra essere ancora lontani dall’approdare ad una legislazione valida e accettata che garantisca alle unioni gay una base di diritto.
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mercoledì 10 dicembre 2008

Social Card: beneficiari potenziali e beneficiati reali


di Veronica Adriani

Immaginate di avere almeno 65 anni e 6000 euro annui di reddito. Oppure più di 75 anni e 8000 euro annui. Oppure di essere genitori di due figli di età inferiore a tre anni e di guadagnare non più di 1131 euro netti al mese. Se possedete una sola casa ad uso abitativo che abbia un valore catastale di non più di 51000 euro ed una sola utenza, potreste rientrare nei canoni che il Governo ha stabilito per ottenere la Social Card. Potreste, appunto. Perché se oltre alla casa possedeste un box auto, o usufruiste di una qualche indennità erogata dall’INPS (assegni di accompagno o invalidità, ad esempio), il vostro reddito, per quanto minimo, sarebbe già fuori da ogni parametro possibile. Ma in cosa consiste questa carta dal sapore esterofilo, che in questi giorni è nata tra le ire dei suoi detrattori e le ovazioni dell’intera maggioranza?

Cos’è la “Carta Sociale”

La Social Card è una carta magnetica erogata da Poste Italiane, che funziona come qualsiasi altra carta di credito, ma con due eccezioni: non è nominale ed è ricaricata direttamente dallo Stato ogni due mesi. La prima ricarica, quella di cui hanno usufruito i primi beneficiari in questi giorni, ammonta a 120 Euro totali, per i mesi di Ottobre, Novembre e Dicembre, quindi poco più di un euro al giorno. I soldi caricati sulla carta sono spendibili esclusivamente nei negozi che hanno aderito all’iniziativa (il 5% dei piccoli esercenti di tutta Italia), oltre che nel pagamento delle bollette; in entrambi i casi si potrà beneficiare di sconti del 10-20%. Iniziativa lodevole, se non fosse per alcune doverose riflessioni che Altroconsumo ha messo ben in evidenza sul suo sito.

Le perplessità: chi paga e chi ci guadagna

I costi di produzione della carta sono coperti solo in parte dallo Stato (650 milioni di Euro). Il resto degli investimenti proviene da Eni (200 milioni) e da Enel (50 milioni), che avranno ovviamente grossi rientri in termini economici (beneficiando tra l’altro di Iva ed accise statali) grazie ai pagamenti delle bollette della luce e del gas che i possessori della carta non esiteranno a fare con loro, uniche compagnie che, nell’era della privatizzazione e della libera concorrenza, promettono sconti.
La seconda riflessione è relativa ai costi di ricarica della Card. Volendo ipotizzare nel migliore dei casi un costo anche di soli 10 centesimi (di solito i costi di ricarica per Poste Italiane ammontano a un euro) per ogni ricarica, si arriva ad un guadagno annuale di 800 mila euro per le Poste. Contando anche i costi delle lettere inviate a ciascun beneficiario dall’INPS, e su cui Poste Italiane avrà ulteriori guadagni, si arriva ad un costo totale per lo Stato sicuramente superiore a quello che si sarebbe avuto erogando i 40 euro mensili direttamente nei conti correnti degli aventi diritto. Ma c’è di più: a tutt’oggi la normativa è in corso di perfezionamento, al punto che la stessa INPS non è in grado di fornire precise informazioni sui parametri di idoneità, nonché sulla modalità di conferimento delle deleghe a terzi in caso di infermità più o meno temporanea del possessore della carta.

In conclusione, se a questo punto foste così fortunati da avere tutti i requisiti per poter spendere quell’euro al giorno in generi alimentari grazie a questa piccola tessera azzurrina, auguratevi almeno di essere in grado di digitare un PIN e di avere per vicino di casa un commerciante che rientri nel famoso 5% di aderenti al progetto. In caso contrario, risparmiatevi pure la fila alla posta: non ne vale nemmeno la pena.

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venerdì 5 dicembre 2008

Berlusconi rispolvera l'editto


di Serena Rosticci

Dopo i magistrati, per il Cavaliere sembra arrivata l’ora dei giornalisti. Di ritorno da Tirana, Berlusconi ha pubblicamente attaccato due direttori di testate nazionali: Paolo Mieli del Corriere della Sera e Giulio Anselmi de La Stampa, colpevoli di aver informato i loro lettori dell’innalzamento dell’Iva del 20% a Sky, e di aver parlato del conflitto di interessi del Presidente del Consiglio. “Hanno attaccato me invece di chiedersi come mai c’era un rapporto privilegiato della sinistra nei confronti di Sky - afferma irritato il premier prima di aggiungere – e che vergogna il Corriere della Sera, con quella vignetta. Dovrebbero andare a fare un altro mestiere, politici e direttori di questi giornali”. Sei anni dopo l’editto bulgaro che colpiva Biagi, Santoro e Luttazzi sembra arrivato il momento di un nuovo editto.




Le cause
L’ondata di polemiche è partita con l’annuncio dell’innalzamento dell’Iva a Sky, con una conseguente perdita della stessa di 210 milioni. Ma soprattutto, ciò che ha fatto alterare il Premier è stata la risposta dell’azienda, che ha iniziato a mandare in onda, su tutti i suoi 100 canali, uno spot contro il governo che così recita: “In una fase di crisi economica i governi lavorano per trovare una soluzione che aumenti la capacità di spesa ai cittadini e che sostenga la crescita delle imprese. Il governo italiano ha invece annunciato una misura che va nella direzione opposta: il raddoppio delle tasse sul vostro abbonamento Sky dal 10 al 20%. Un aumento delle tasse per 4.600.000 famiglie. Questo anche se nella scorsa campagna elettorale il governo aveva promesso di non alzare le tasse dei cittadini italiani. Dal 2003 Sky ha costantemente investito in’Italia, trainando la crescita dell’intero settore televisivo, senza utilizzare sussidi da parte del governo, creando migliaia di nuovi posti di lavoro, ma soprattutto offrendo a tutti gli italiani la possibilità di scegliere i programmi televisivi che preferiscono. Se il Parlamento non lo bloccherà, questo aumento delle tasse sul vostro abbonamento Sky entrerà in vigore il prossimo 1 gennaio”. E chiude invitando gli abbonati a scrivere al Presidente del Consiglio una mail, con il conseguente risultato di un intasamento in poche ore della sua casella di posta elettronica. Una campagna decisamente efficace, e molto furba, che va a colpire il governo nel suo punto più debole: la promessa, non mantenuta, di una riduzione delle tasse. I giornali iniziano a parlare di una guerra Governo-Sky quando anche Ilaria D’Amico, durante la sua trasmissione domenicale, si mette a spiegare gli effetti che provocherebbe l’innalzamento dell’Iva. Ma è la vignetta di Emilio Giannelli sul Corriere della Sera, giornale letto in modo particolare dall’elettorato di Berlusconi, a farlo alterare di più. Ed è allora che parte l’attacco.

Le reazioni
Paolo Mieli e Giulio Anselmi dal canto loro rispondono di aver fatto solo il loro dovere offrendo ai cittadini una buona informazione. Le polemiche vere e proprie partono invece (sempre con il consueto ritardo) dal PD che, in seguito alle dichiarazioni del Presidente del Consiglio, parla di attacco alla democrazia e al libero pensiero, mentre La Repubblica scrive che ormai “stiamo precipitando in un’autocrazia”. Intanto Berlusconi continua ad affermare che andrà avanti con l’innalzamento dell’Iva e mercoledì le televisioni di Palazzo Chigi non captavano il canale con i tg di Sky, mentre tutti gli altri funzionavano. Coincidenza? .
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mercoledì 3 dicembre 2008

Caso Sky: il Partito Democratico e la Sindrome di Joker


di Simone Conte
La verità è che il Partito Democratico non sa più cosa fare, non sa più con chi prendersela, e piuttosto che guardarsi allo specchio, piuttosto che cercare di risolvere in qualche modo lo scontro paralizzante tra Veltroniani e Dalemiani, piuttosto che decidere cosa vuole fare da grande, si mette a fare il paladino delle genti oppresse quando non ce n’è bisogno. Lo fa sulle cause sbagliate, e così più che Batman, alla fine sembra l’ultimo Joker, quello di Heath Ledger, quello che dice“Io non ho piani: io sono un cane che corre dietro alle automobili, se le prendessi non saprei che farmene”. Tremonti ha deciso di riportare al 20% l’aliquota sul canone Sky? Bè, è giusto. Perché Sky non si mangia, perché senza Sky si campa benissimo, e perché non si capisce per quale motivo una Paytv debba essere agevolata rispetto (ad esempio) alla musica, il cui mondo conduce da anni una battaglia per il taglio dell’Iva senza successo. Un partito che non avesse il disperato bisogno di spostare l’attenzione dalle sue lacerazioni, e che stesse facendo davvero l’opposizione , non avrebbe bisogno di starnazzare alla rinfusa contro uno dei pochi provvedimenti decenti di questo Governo. Dicono: “C’è il conflitto di interessi”. Certo che c’è, perché in due giri di Governo che gli italiani vi avevano concesso non avete saputo e voluto risolverlo: adesso ve lo tenete, adesso ce lo teniamo, a causa della vostra incapacità, e in alcuni casi collusione. Quando Batman chiede a Joker se voglia ucciderlo, lui risponde: “Io non voglio ucciderti! Che faccio senza di te? Tu mi completi”. Il profilo è sempre più calzante.

Difendere l’Italia pallonara in questo caso è demagogia allo stato puro, è esattamente quello che avrebbe fatto il centrodestra se il provvedimento fosse stato approvato dal Governo Prodi, come pare fosse in programma. Difendere Murdoch, che di Berlusconi è la versione potenziata e internazionale, rasenta livelli di incoerenza nuovi addirittura per il Pd. Sky non è scema, e infatti ha già fregato tutti, come? Non mettendo nemmeno tra le ipotesi il fatto di poter ripianare lei quel piccolo aumento, ma dando per scontato che lo pagheranno gli utenti, e diffondendo video nei quali invita a scrivere mail di protesta. Comunque vada, Murdoch ha già vinto.

Infine è ridicolo diventare compari di battaglia della D’Amico, e tacere sul vergognoso taglio ai contributi per il risparmio energetico infilato da Tremonti nel pacchetto Anti-crisi, una misura che metterà in difficoltà (privandole degli sgravi fiscali e dei contributi previsti) migliaia di famiglie che hanno speso parecchi soldi per installare pannelli solari e quant’altro. Un’opposizione presentabile parlerebbe di questo, e non metterebbe in scena la pagliacciata che sta facendo sulla questione Sky,ma fare i pagliacci è più semplice, correre dietro alle macchine è più divertente. A cercare di essere un attimo più concentrati sulle questioni importanti, Joker risponderebbe “Perché sei così serio?”.
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martedì 2 dicembre 2008

In arrivo la tessera del tifoso: tra ottimismo e perplessità


di Daniele Zandonà

C’è un oggetto che si sta affermando prepotentemente, scavalcando ogni moda e tendenza di arredamento urbano, più delle versatili soluzioni Ikea, più dei funambolici esperimenti degli architetti di grido: il tornello. Da quando il ministro Brunetta ha dichiarato guerra ad assenteisti e “fannulloni” della pubblica amministrazione, i tornelli hanno conosciuto una inaspettata notorietà in tutti gli approfondimenti giornalistici degli ultimi mesi. Ora questa misura si appresta a trovare la sua applicazione, almeno nelle intenzioni, anche negli stadi; per far fronte alle tante manifestazioni di violenza che attanagliano il tifo calcistico italiano, è allo studio un sistema di tesseramento che costituisca una “carta d'identità” del tifoso, in parole povere un vero e proprio badge, un cartellino da timbrare per accedere allo stadio.
La situazione

Non è una novità il clima di violenza e di emergenza in cui rischia di degenerare continuamente il mondo dei tifosi italiani; anche l'attuale stagione calcistica è stata inagurata dai disdicevoli episodi di roma documentati in un nostro precedente articolo. Il persistere di questa situazione è decisamente inaccettabile, a maggior ragione quando in altri paesi, come in Gran Bretagna, nel corso degli anni novanta è stata combattuta e annichilita una forma di tifo violento ben più temibile, come il fenomeno degli hooligans. In Italia negli ultimi anni ogni governo si è impegnato, fra resistenze e polemiche, a combattere questa brutta faccia di un mondo, quello sportivo, altrimenti votato a valori molto più sani. Una delle più recenti iniziative è stata la “tessera del tifoso”, presentata a fine ottobre dal ministro dell'interno Maroni, con l'intento di renderla obbligatoria ad ogni club dalla prossima stagione 2009/2010.

Il nuovo strumento

L'adozione di questo strumento dovrebbe permettere l'ingresso negli stadi soltanto dei soggetti che non creino problemi di ordine pubblico, e lasciare fuori tutte le persone potenzialmente pericolose; infatti, come in una vera e propria “anagrafe” dei tifosi, la tessera verrebbe fornita solamente a chi non abbia subito condanne per reati da stadio nell'arco degli ultimi anni; un lavoro di certificazione che spetterebbe comunque ai vari club. Le squadre che non riusciranno per tempo ad attuare questo strumento nelle proprie tifoserie rimarrebbero passibili di tutti gli attuali strumenti limitativi, ovvero trasferte bloccate o chiusure degli stadi ogni qualvolta fosse ritenuto necessario dalle forze dell'ordine. Questo aspetto ha suscitato alcune resistenze da parte dei diretti interessati, e anche il presidente della lega Matarrese, pur favorevole ad un sistema di contenimento delle forme di violenza, si è detto preoccupato dei numerosi ostacoli che si vanno frapponendo all'ingresso negli stadi, in quanto si sta “trasformando l'emergenza in ordinaria amministrazione”, con possibili risvolti economicamente negativi per i vari club. Vedremo nei prossimi mesi se e quanto questa innovazione riuscirà ad affermarsi, e se sarà uno strumento valido o l’ennesima sconfitta dello Stato nei confronti del mondo del calcio.
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lunedì 1 dicembre 2008

Giornata mondiale contro l'Aids: per non abbassare la guardia


di Laura Liucci

“Io ho accettato abbastanza rapidamente la mia sieropositività. Ma molti non sanno cosa vuol dire essere HIV positivi, e quando lo dico l’informazione che do risulta falsata agli occhi di chi non sa”. Con queste parole un uomo spiega in un’intervista cosa vuol dire per lui vivere in una società che ancora non sa, o non vuol sapere, come si possa continuare a vivere pur lottando contro il virus dell’HIV. Ed è proprio per sensibilizzare le persone verso questo tema che, da vent’anni a questa parte, ogni 1° dicembre (data in cui venne diagnosticato il primo caso, nel 1981) viene celebrata la “Giornata Mondiale contro l’Aids”, organizzata dal 2005 dal WAC (The World AIDS Campaign) al grido di “Stop all’Aids: Manteniamo le promesse”. Diminuire sempre di più il contagio, favorire la prevenzione, sensibilizzare verso comportamenti non rischiosi e, ovviamente, trovare una cura. Queste sono le promesse che ci si propone di mantenere, insieme al proposito di sfatare dannosi e inutili taboo che vedono nella scoperta della sieropositività una condanna a morte.

Al giorno d’oggi di AIDS non si muore più, almeno in alcuni paesi. Presupposto fondamentale è infatti l’accesso a questi farmaci, unito ad una serie di politiche sanitarie in grado di fare opera di prevenzione e, in caso di sieropositività, limitare la trasmissione madre - figlio. Nei paesi ricchi questo ormai avviene nella stragrande maggioranza dei casi (nel 2007 si è registrato in Italia un solo caso di trasmissione parentale). Ma in alcune nazioni africane e asiatiche si è ancora molto indietro, benché si siano comunque raggiunti dei risultati significativi in India e in nazioni come Kenya e Zimbabwe. L’AIDS epidemic update aggiornato al dicembre 2007 parla di un totale di 33.2 milioni di persone HIV positive, di cui 22.3 milioni nella sola africa sub-sahariana, in cui l’aids resta la prima causa di morte. Se si pensa che il 90% del totale mondiale dei bambini sieropositivi vive qui si possono cogliere le drammatiche implicazioni di questi dati.

Le cause del contagio



Anche in occidente il contagio non si è arrestato. Nella sola Europa occidentale dal 1999 al 2005 il numero annuo di diagnosi di HIV si è triplicato, da 7.500 a 19.500, per poi diminuire sensibilmente nel 2007 (16.300). In Italia si hanno 4.000 nuovi casi l’anno e un totale di 24.000 malati di AIDS a tutto il 2007. I dati più significativi riguardano la composizione del campione. Mentre nei primi anni ’80 le vittime principali del contagio erano omosessuali e tossicodipendenti, nel 2007 quasi il 70% delle vittime dell’AIDS sono eterosessuali con nessuna esperienza di droga. Sono dunque i rapporti a rischio la causa principale dell’inarrestabilità oggettiva di questa piaga. E in occidente non ci sono scusanti per questo. E’ qui che bisogna insistere per cercare di porre rimedio ad una situazione che è per certi versi migliorata, ma pur sempre molto seria. Quello che questa giornata ci vuole ricordare è che, mentre nei laboratori si continua la corsa verso una cura che possa sconfiggere l’HIV, chiunque di noi può fare qualcosa impegnandosi nel proprio piccolo con comportamenti sicuri e ragionati. Aspettando il giorno in cui lo spettro dell’incurabilità sarà solo un ricordo.
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sabato 29 novembre 2008

USA: la crisi finanziaria investe l’industria automobilistica. Le “Big Three” a un passo dal fallimento


di Riccardo Rapezzi

Un aiuto immediato per evitare il collasso. E’ l’appello dei tre colossi automobilistici di Detroit, General Motors, Ford e Chrysler che, ormai in ginocchio, sperano in un copioso finanziamento da parte dello Stato. Al momento però la richiesta sembra non avere seguito, Obama non intende “firmare alcun assegno in bianco”: reputa il settore automobilistico fondamentale per l’economia statunitense, ma responsabile anche del futuro lavorativo di oltre tre milioni di americani. Il problema infatti non ruota solo intorno alle cosiddette Big Three, ma tocca anche imprese e fornitori che costituiscono parte integrante dell’industria automobilistica americana. Insomma, la Casa Bianca si aspetta un piano di recupero valido e dettagliato, solo da quel momento in poi si potrà parlare di denaro. La soluzione sembra comunque risiedere nell’eco sostenibilità che coinvolge, grazie alla produzione di alcuni modelli, tutte e tre le aziende.

La concorrenza giapponese
Un collasso dunque alle porte, che in qualche modo ci si aspettava da 30 anni. A sottolinearlo è “Il Sole 24” che ha sintetizzato le cause di questo crollo finanziario: il primo segnale di allarme risale agli anni ‘60 con il prepotente ingresso del Giappone nel mercato dei motori, con le sue auto economiche e di qualità, costringendo le aziende statunitensi ad abbassare bruscamente i prezzi per fronteggiare la concorrenza. Ciò ha poi determinato una notevole riduzione produttiva e quindi una successiva impennata dei costi. Se poi si tiene conto degli ulteriori oneri, come pensione e spese sanitarie, a loro carico (quando invece in Europa e in Giappone spettano allo Stato) ecco giustificata, in poche righe, la voragine nelle casse delle Big Three.
Sensibilizzare l’opinione pubblica per convincere Washington
Intanto, in attesa di un responso che vale 25 miliardi di dollari, le tre case automobilistiche puntano sulla sensibilizzazione dei cittadini. Ha aperto le danze GM con un eloquente video on-line in cui si mostrano le conseguenze, imminenti, di un mancato contributo da parte dello Stato: da un lato un marchio che scompare, dall’altro una dilagante disoccupazione. Una “maratona” che, per ora, non conosce soste, e che ha coinvolto per la prossima iniziativa anche Ford (l’unica in grado di resistere ancora per tutto il 2009) e Chrysler. L’obiettivo e una manifestazione ecologica, a Washington, in cui si raduneranno tutte le vetture che vantano basse emissioni di anidrite carbonica, dimostrando così che l’intervento economico dello Stato sarà fondamentale anche per lo sviluppo di questo importante ramo dell’industria automobilistica.
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venerdì 28 novembre 2008

Paul Volcker: Obama sceglie un ottantenne per affrontare la crisi


di Valeria Mencarelli

“Quello che vogliamo fare è unire esperienza e novità di pensiero”. Così il neo presidente degli Stati Uniti Obama risponde a chi ha già polemizzato sulle scelte dei suoi collaboratori e lo accusa di fare esclusivamente un “riciclaggio” delle passate amministrazioni, soprattutto quella Clinton. Durante la sua terza conferenza stampa sul tema dell’economia in tre giorni, Obama ha fatto leva sulla preoccupazione che gli americani dovrebbero avere se, al contrario, ignorasse l’esperienza solo per accrescere il senso del cambiamento da lui profetizzato in campagna elettorale. Le polemiche sono state alimentate in particolare dalla carica assegnata da Obama a Paul Volcker. Una carica del tutto nuova, creata ad hoc per fronteggiare la crisi: sarà infatti a capo di un nuovo organo consultivo della Casa Bianca, un comitato formato da personalità del mondo accademico ed economico, sganciato da ogni pressione operativa, che funzionerà come forum di discussione anticonformista sui problemi economici che si sono venuti a creare con la crisi. Un gruppo di studio in versione presidenziale, per capirci.
L’uomo del “dream team” obamiano
Volcker è un ottantenne. Un personaggio indipendente, che non rientra negli schemi a cui la politica americana ci ha abituato. Vicino al partito democratico, ma “servitore” anche di quello repubblicano negli anni 80, è stato nominato dal presidente Carter (democratico), ma poi riconfermato da Reagan (repubblicano), alla guida della Federal Reserve, la banca centrale statunitense. È stato l’uomo in grado di ridurre l’inflazione di più di 10 punti percentuali in meno di due anni. È stato anche uno dei primi a prevedere le disastrose conseguenze della pratica del totale liberismo economico americano. Con la sua nomina e quella del ben più giovane Geithner, 47 anni, come segretario del Tesoro, vanno a completarsi due tasselli importanti della squadra che dovrà condurre gli Stati Uniti durante la recessione.
Le donne del presidente
Un’altra carica da poco assegnata è quella dell’ex candidata alla presidenza Hillary Clinton, che va ad impensierire ancora di più chi vede nella futura amministrazione una ripetizione di quelle precedenti. La Clinton sarà infatti la nuova Condoleeza Rice, attuale Segretario di Stato. La senatrice ha accettato la proposta di Obama di essere la nuova rappresentante degli Usa nel mondo solo dopo che suo marito Bill, ex presidente, ha acconsentito a sottoporre le loro fondazioni sotto controllo, per evitare problemi di conflitto di interesse. Ed un’altra donna va a ricoprire un altro incarico delicato, quello di Ministro per la sicurezza interna: l’italoamericana Janet Napolitano, già procuratrice federale generale e piccola perla del partito democratico.
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giovedì 27 novembre 2008

India: le caste più forti di ogni legge. Quando l'uguaglianza è un'utopia


di Veronica Adriani

Aveva 15 anni: è stato bloccato da sei uomini, picchiato, rasato, trascinato per strada e gettato sotto un treno in corsa, di fronte ad un agente di polizia e soprattutto alla madre, entrambi impotenti. E’ successo giovedì scorso a Patna, villaggio dell’India nord-orientale. Cosa aveva fatto Manish Kumar per meritare una fine così straziante? Aveva scritto una lettera d’amore ad una ragazza, Dalit come lui, ma appartenente ad una sotto-casta superiore. Perché se formalmente dal 1950 la Costituzione Indiana sancisce l’uguaglianza di tutti gli uomini sotto il profilo sociale, religioso, sessuale e politico, la realtà racconta di una società rigidamente strutturata in caste, con tutto ciò che ne consegue, ovvero una continua violazione dei diritti fondamentali dell’uomo. In questo momento in cui l’India è su tutte le nostre prime pagine per aver versato del sangue occidentale, noi vogliamo raccontare del sangue di Manish, del sangue degli intoccabili, sparso in continuazione e senza pietà nella totale indifferenza dei media.


Le caste: una stratificazione sociale lunga quattro millenni

Introdotta dagli Indo-iranici nel secondo millennio a.C. al solo scopo di soggiogare le popolazioni indigene, la divisione della società in quattro Varna (brahmani o sacerdoti, kshatrya o guerrieri, vaishya o mercanti /artigiani e shudra o servi) ha da sempre regolato, in India, i rapporti tra gli individui a qualsiasi livello. L’esclusione dei Dalit, meglio conosciuti come Intoccabili nel mondo occidentale, da questa classificazione, è altrettanto socialmente accettata e condivisa. Allo stesso modo lo sono l’endogamìa, la cristallizzazione dei ruoli lavorativi, l’interdizione dei contatti tra individui di casta diversa e il rispetto delle gerarchie, anche nelle sotto-caste.

Riforme dall’alto e proteste dal basso

La necessità di intervenire attivamente per limitare episodi come quello di giovedì scorso è da tempo piuttosto sentita. Nel 1989 è stato stipulato il Prevention of Atrocities Act per salvaguardare i Dalit dalle violenze commesse ai loro danni specialmente nelle zone rurali, dove si concentrano i due terzi della popolazione indiana. Solo nel 2005 si sono registrati 100.000 casi di violenza (riduzione in schiavitù, stupro, omicidio) sugli Intoccabili. Nel 2006, a seguito di un atto vandalico ai danni della statua del leader Dalit Bhimrao Ramji Ambedkar, sono scoppiate numerose proteste in tutto il Paese, proteste che si sono protratte fino al 30 dicembre 2007, data della marcia di ventimila Dalit che si è tenuta nelle strade di New Delhi, definita “marcia degli Intoccabili”.

Nonostante ciò e nonostante le quote riservate ai Dalit nelle amministrazioni pubbliche, nonostante l’ Uttar Pradesh sia da tempo nelle mani di un Primo Ministro Dalit, ancora le discriminazioni sociali nelle scuole, nel pubblico impiego e nelle Università sono forti. La scarsità di posti riservati rispetto alla grande quantità di aventi diritto, l’incessante processo di privatizzazione dell’istruzione, l’assenza di giustizia nei crimini di cui i Dalit sono fatti vittima, ostacolano una normalizzazione della società che non può che considerarsi, questa sì, davvero intoccabile.
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mercoledì 26 novembre 2008

Occupati o preoccupati? Precari e in nero, ecco i nuovi lavoratori italiani



di Alessio Liverziani
Precarietà e lavoro nero, questi i tratti distintivi del sistema occupazionale italiano. A rivelarlo è l’ultimo rapporto Isfol, il volume che da quasi 30 anni fotografa processi e dinamiche del mondo dell’occupazione e della formazione. Il Documento evidenzia il gap del nostro Paese rispetto agli altri dell’Unione: l’occupazione nazionale si attesta al 58,7%, un tasso inferiore di quasi sette punti percentuali rispetto alla media Ue (65,4%).


Aumenta il lavoro, ma precario

Tutto questo nonostante il numero degli occupati sia in crescita, arrivando a toccare quota 23 milioni e 222mila, massimo storico dal 1992. Anche se, spiegano dall'Isfol, si tratta di un aumento contenuto rispetto al passato (+1% nel 2007 contro il +1,7% del 2006), dovuto alla crescita dei lavoratori stranieri (+154mila unità, pari ai 2/3 dell'aumento degli occupati nel 2007 rispetto al 2006) e frutto soprattutto di una contrazione dell'occupazione a tempo pieno e di una straordinaria crescita dell'occupazione a tempo parziale e flessibile. Una brutta copia della ‘flexicurity’ danese quella adottata in Italia che, invece di rendere il mercato del lavoro flessibile assicurando al contempo una forte protezione sociale ai lavoratori precari, ha portato solo all’aumento dell’insicurezza per il futuro, causando quell'effetto ‘scoraggiamento’ che ha spinto molti lavoratori, soprattutto donne, nell'area dell'inattività.

Lavoro nero al Sud

Ma il dato allarmante che emerge dal Rapporto è un altro: un milione e 480mila uomini lavorano in nero. Sono prevalentemente meridionali, ultra 30enni, con cultura medio bassa, impiegati nel settore dei servizi, e rappresentano il 58,4% dell'occupazione sommersa e irregolare totale. In 3 casi su 4, manca proprio il contratto, mentre nella restante fetta di percentuale, il pezzo di carta scritto c'è, ma non prevede orari, contributi o mensilità aggiuntive.Un altro duro colpo per il Mezzogiorno, che già vanta un tasso di disoccupazione dell'11%, quasi doppio rispetto alla media nazionale (6,1%).


La speranza

L’Isfol prevede scenari migliori per il prossimo triennio, con un aumento dell'occupazione stimato intorno al 5%, pari a circa 1 milione e 200mila unità. Gli aumenti più consistenti (oltre 500mila unità) si avranno tra i colletti bianchi (+8,7% per le professioni a elevata specializzazione e +5,5 per quelle tecniche) e tra le qualifiche più basse (+13,5%, pari a circa 400mila nuovi posti di lavoro), a conferma del processo di polarizzazione delle professioni sospinto, soprattutto, da progresso tecnologico e immigrazione.
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lunedì 24 novembre 2008

Il nostro compleanno


Spegnete la luce, nascondetevi dietro le tende, aspettataci rientrare in casa, preparate la torta, di candelina ne basta una. E’ il nostro compleanno, il primo. Lo festeggiamo con voi, con chi è venuto qui una volta sola o con chi ci viene tutti i giorni, con chi è venuto cercando le opinioni e con chi cercando i fatti, con chi è d’accordo e con chi critica, con chi ci adora e chi ci detesta, con chi lascia i commenti e con chi si vergogna, con chi diceva che non avremmo retto due mesi e con chi ci ha incoraggiato dall’inizio, con chi dice che siamo comunisti e con chi dice che siamo troppo poco di sinistra, con chi dice che siamo ingessati e con chi dice che siamo libertini, con chi dice che siamo troppo blog e con chi dice che siamo troppo testata, con chi ipotizza che prendiamo soldi dai partiti di sinistra e con chi ci stima perchè sa che che se la nostra priorità fossero i soldi non staremmo facendo questo. Festeggiamo con voi, perché è con voi che siamo cresciuti, con voi che in realtà, in principio non avevamo previsto. Perché questo posto è nato per fare pratica, per avere un luogo nel quale esercitarsi, non è un laboratorio tanto per dire, qui non si fa la selezione all’ingresso, non si prendono “solo quelli bravi”, qui scrive chi vorrebbe farlo ma non trova spazio nelle redazioni perché non è figlio-di o amico-di. Perché sostanzialmente questo mestiere si impara facendolo. Abbiamo iniziato per questo motivo, poi abbiamo visto che eravate sempre di più, che vi interessava quello che scrivevamo, che venivate a cercarci, e allora ad una funzione rivolta all’interno, si è aggiunta quella verso l’esterno, verso la vostra curiosità che abbiamo cercato in alcuni casi di soddisfare con approfondimenti, in altri di suscitare trattando argomenti che repubblica.it, impegnata com’è con miss maglietta bagnata, non ha tempo di trattare.Allora qui scrive anche chi pensa che scrivendo di qualcosa, sei in qualche misura costretto a conoscerla meglio, a studiare, e così facendo dai il tuo minuscolo contributo al dibattito, alla conoscenza di un determinato argomento e fai, giorno dopo giorno la tua infinitesima parte nella lunga e difficile battaglia contro l’ignoranza galoppante. Proviamo a farlo da un anno, ci mettiamo il meglio di noi stessi, a volte basta, altre no. Quando sbagliamo lo facciamo in buona fede, se qualcuno non ci crede dormiremo lo stesso sonni tranquilli.
Oggi compiamo un anno, siamo piccolissimi, ma siamo anche nell’età in cui dopo aver imparato a conoscere il mondo e a decifrarne i segnali, sei pronto per camminare. Noi siamo pronti, presto ci vedrete crescere. Ma ora accendete la luce, uscite da dietro le tende, che entri la torta, abbiamo voglia di festeggiare, siamo cresciuti, siamo proprio contenti.
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sabato 22 novembre 2008

Aranycsapat ovvero la squadra d'oro che violò le regole del football


di Gianni Galleri
Quella sera si sentirono sicuramente un po' storditi anche loro. Avevano compiuto un'impresa. Era il 25 novembre del 1953, 35 anni fa. A quel tempo se entravi in quello stadio tremavi, e uscivi sempre a testa bassa, sconfitto. Wembley era come una ragazza inviolata. I Leoni della nazionale inglese, gli inventori del football, non avevano pietà di nessuno fra le mura amiche. Ma il 25 novembre del 1953, la federcalcio inglese commise un'enorme leggerezza. Volle invitare, per festaggiare i suoi novant'anni, i campioni olimpici in carica. Quella sera sotto il cielo di Londra nacque la leggenda dell'Aranycsapat (la squadra d'oro). L'Ungheria massacrò l'Inghilterra per 6-3.
Il colonnello e il centravanti arretrato
Una squadra unica, come accade una sola volta, ogni tanto, nella storia del calcio. Una nazionale capace fra il 1952 e il 1954 di aggiudicarsi un'Olimpiade e un secondo posto ai mondiali svizzeri, dietro alla Germania, in una partita in cui troppe cose alla fine non tornarono. I nomi di quegli uomini dicono così poco ai non addetti ai lavori. Si sa, il magiaro è una lingua dai suoni assurdi per noi neolatini, ma qualche persona sulla cinquantina sentirà correre un brivido sentendo nominare ad esempio il nome del colonnello Ferenc Puskas, uno dei più grandi calciatori di sempre, che dopo i fatti del '56 a Budapest si trasferirà a Madrid, nel grande Real e prenderà persino la nazionalità spagnola. Oppure si emozionerà ricordando l'altro attaccante Sandor Kocsis, capocannoniere in Svizzera con 11 gol. Ma soprattutto il nostro lettore, se capisce di calcio, si appassionerà a conoscere o a ricordare la storia di Nandor Hidekguti. È lui l'ingranaggio che fece di una grande squadra una leggenda. Gusztav Sebezs, il mister, era un genio, una persona che sapeva osare, niente da spartire con i mister di oggi, troppo sotto pressione per inventarsi qualsiasi cosa. Nandor era un centravantone lento, estremamente marcabile, innocuo. Lui lo prese e lo posizionò dietro alla punta centrale, Puskas, e alle due ali, inventandosi un 4-2-4 da sogno.

Ascesa e declino
Quando i Leoni entrarono in campo non capirono niente e si trasformarono presto in agnelli. Hidekguti segnò tre reti quella sera, entrando legittimamente nell'olimpo del calcio, insieme a nomi più noti, alla faccia dell'infame storiografia calcistica contemporanea, che premia i belli e non i bravi. Ma si sa, la bestia ferita è la più pericolosa, la più vendicativa. E fu per questo che la Grande Inghilterra pretese la rivincita. Come si usava al tempo, fu fissata una partita in Ungheria. I Leoni volevano rimettere le cose a posto, non si possono sovvertire i valori. Era il 23 maggio del 1954. Probabilmente il Nepstadion di Budapest era gremito. Le maglie inglesi gridavano vendetta, ma la squadra d'oro ancora una volta urlò al mondo chi era il più forte, infliggendo a sua maestà la più cocente sconfitta mai ricevuta nella sua storia: 7-1.
La storia però a volte non premia gli eroi, non bacia chi dovrebbe. Era passato poco più di un mese dall'impresa quando l'Aranycsapat si trovò a disputare il primo mondiale europeo del dopoguera. Davanti a sé la Germania Ovest, l'umiliata che doveva rialzarsi. Il risultato è noto a tutti, quello che è meno conosciuto, fu la fine che fece la nazionale tedesca. Per la cronaca, alcuni giocatori smisero dopo neppure un anno, quasi tutto l'undici titolare fu colpito da un'epatite nel giro di un mese, qualcuno poco dopo se ne andò. Ma nel calcio restano i numeri e l'Ungheria perse quel mondiale. Puskas, Hidekguti, Kocsis, Budai e Czibor restano solo dei suoni senza senso e non i nomi di chi osò distruggere le certezze del calcio.
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venerdì 21 novembre 2008

La nuova Russia: Medveved prepara lo scacco a Putin.Quando l’allievo si libera del maestro.


di Riccardo Rapezzi

Inizia a farsi sempre più concreta l’idea di una possibile spaccatura nell’asse Medveved-Putin. Lo dimostrano una serie di decisioni, provvedimenti e quindi probabili disegni politici dell’attuale presidente della Federazione russa. Dmitrij Medveved è diventato capo dello stato lo scorso maggio dopo due successivi mandati del suo mentore Vladimir Putin, nominato premier lo stesso giorno del suo insediamento, determinando una struttura politica costituita da un tandem, apparentemente, inossidabile. Ma a distanza di pochi mesi la rottura è alle porte e va a delinearsi uno scenario politico nel quale Putin sembra non condividere molte delle decisioni del suo presidente, mentre quest’ultimo, prolungando il proprio mandato a sei anni, sta procedendo con una graduale scrematura della squadra dei putiniani a capo dei territori della federazione russa, giustificando il proprio operato con la lotta alla corruzione.
La ‘decimazione’ dei putiniani
L’Inguscezia è una delle 21 repubbliche del territorio russo e ha da poco visto dimettersi il suo presidente Murat Zjazikov per lasciare il posto a Junus-Bek Evkurov Un turnover assolutamente singolare se si pensa alla rapidità con la quale sia avvenuto: non è stata neanche considerata la procedura che prevede, secondo la legge, la presentazione di almeno due candidati alla presidenza della repubblica. Il Cremlino aveva fretta di affidare il paese nelle mani del generale del GRU, uno degli uomini di Medvedev. Stessa sorte per il presidente Mustafa Batdyev in Karačaevo-Circassia sostituito da Boris Èzbeev, secondo un progetto del capo di stato russo. Il prossimo a cadere, invece, dovrebbe essere il governatore di Orel, Egor Storev: per lui come per altri uomini della sua squadra sono state avviate delle procedure penali per fatti di corruzione. Un tema centrale in questo walzer di presidenti, un pretesto per eliminare gli uomini di Putin, tanto che anche Evkurov appena eletto in Inguscezia ha parlato di “lotta alla corruzione” come primo obiettivo della nuova presidenza.

Il “battibecco” sul protezionismo
Non solo ambigui progetti politici, ma anche dissidi verbali pubblici. L’ultimo botta e risposta tra capo di stato e premier è in occasione del summit G20, tenutosi a Washington lo scorso 15 novembre. Tra le più importanti decisioni prese dai leader internazionali si evidenzia il rifiuto del protezionismo: orientamento politico-economico condiviso da Medvedev e, naturalmente, messo in dubbio da Putin. Il premier ha infatti sottolineato che: “la Russia rispetterà le decisioni del summit G20, ma continuerà ad appoggiare misure per la difesa degli interessi nazionali. Come è noto le misure protezionistiche a sostegno dell’economia rappresentano una parte importante del pacchetto russo di azioni anti-crisi”. Uno ‘scontro’, quindi, aperto su più fronti.
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giovedì 20 novembre 2008

Le banche italiane e il caso Zaleski: storia di un impero fondato sul nulla


di Laura Liucci

E’ possibile essere debitore verso una banca e allo stesso tempo possederne una parte? Nel mondo della moderna finanza creativa, la risposta è: si, per quanto difficile da immaginare. E se questo paradosso venisse ripetuto ancora ed ancora con più banche e più debiti? La risposta in questo caso sarebbe ancora si, ed avrebbe un nome: Romain Zaleski, il finanziere franco- polacco salito alla ribalta del palcoscenico della finanza italiana per essere al centro di un enorme buco nero di debiti in seguito al crollo del mercato azionario.

Chi è Romain Zaleski?

Wikipedia parla di un ex funzionario pubblico passato alla finanza che ha fatto fortuna speculando in borsa. Secondo Forbes, nel 2007 è il 488° uomo più ricco del pianeta, con un patrimonio personale di 2 mld di dollari. Ad oggi Zaleski è il finanziere, italiano d’adozione, che ha gettato nel panico il circuito delle maggiori banche italiane e che sta per essere salvato da UniCredit, Intesa Sanpaolo, Ubi Banca, Banca Popolare di Milano e Monte dei Paschi di Siena, banche a cui DEVE circa 4.5 mld. La domanda a questo punto è d’obbligo: perché 5 delle maggiori banche italiane, in un momento di crisi come questo, dovrebbero scomodarsi a sborsare dei soldi per uno speculatore in caduta libera che per di più è anche in debito con loro per una cifra enorme? Semplice: Zaleski non è un qualunque speculatore né tantomeno un qualunque debitore.
Un circolo vizioso

La scalata di Zaleski è stata possibile grazie ad un meccanismo paradossale per cui, poniamo, Intesa Sanpaolo concedeva un prestito finalizzato all’acquisto di azioni di Banca Popolare di Milano, e in seguito, con un ulteriore prestito della Bpm, Zaleski comprava una partecipazione a Intesa. E così ancora e ancora. In parole povere, le azioni di una banca venivano date come pegno per ricevere ulteriori prestiti da altre banche in una sorta di circolo vizioso in cui Zaleski era allo stesso tempo debitore ma anche azionista di una stessa banca (e si parla di quote talmente importanti da avere voce in capito in ambito di consiglio d’amministrazione).

Nel giro di 10 anni il pacchetto azionario del finanziere franco- polacco è cresciuto a dismisura, arrivando a comprendere, solo per fare qualche esempio, il 10% di Edison, il 5% di Intesa, il 2,3% di Generali, il 2,3% di Ubi Banca, il 2% di Mediobanca, il 2% di Bpm e l’1% di Telecom. All’inizio del 2008 i suoi titoli valevano circa 10 miliardi a fronte di un debito di 5 mld. La scommessa di Zaleski, e delle banche che avevano allegramente supportato le sue speculazioni, sembrava stravinta. Con il crollo del mercato azionario e la crisi economica mondiale però le partecipazioni di Zaleski hanno perso progressivamente valore fino a circa 5 mld, a fronte di un debito, sensibilmente cresciuto, di circa 6 mld.
La resa dei conti

A questo punto la perdita di valore delle azioni date in garanzia dei prestiti, unita all’evidente impossibilità che Zaleski riuscisse a rimettersi in corsa, ha fatto sì che le banche straniere creditrici, nella fattispecie l’inglese Royal Bank of Scotland e la francese Bpn, chiedessero di rientrare di una parte dei soldi prestati a Zaleski. Ed è qui che Intesa, Unicredit e le altre italiane sono corse in soccorso del finanziere liquidando le straniere ed evitando così di consegnare nelle loro mani importanti pacchetti azionari che avrebbero aperto il campo ad una possibile infiltrazione straniera nel circuito bancario italiano. Altrettanto importante, Zaleski possiede partecipazioni in società di grande rilievo sul palcoscenico di Piazza Affari e una corsa alla liquidazione di tali azioni avrebbe ripercussioni catastrofiche sugli indici borsistici italiani.
Tutte motivazioni chiare e ragionevoli. Ma come giustificare che nel 2008 le banche italiane abbiano concesso prestiti per un totale di 900 mld di cui 6,3, cioè quasi l’1%, ad un’unica persona?
Chi pagherà gli errori
In qualche punto del meccanismo qualcuno avrebbe dovuto chiedersi cosa sarebbe successo se costui avesse fallito, ma questo non è accaduto. E sullo sfondo di questa vicenda abbiamo ora delle banche a corto di liquidità, che stanno sostanzialmente chiudendo i rubinetti di credito alla maggior parte delle piccole e medie imprese, e che dipenderanno in modo vitale dagli interventi statali previsti dal decreto legge “salva-banche” varato dal Governo la scorsa settimana. Soldi pubblici che andranno a risanare situazioni dettate da scelte scellerate, di cui la vicenda Zaleski è forse l’emblema più rappresentativo. Ed eccoci all’ultimo corto circuito, nel quale le banche che ora (attraverso le istituzioni) chiedono aiuto ai contribuenti italiani, sono le stesse che ne strangolano una parte con mutui dai tassi criminali. Ciò nonostante, questo aiuto lo avranno, si rimetteranno in carreggiata e ricominceranno a fare il proprio lavoro. Fino all’arrivo del prossimo Zaleski.
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mercoledì 19 novembre 2008

Villari vs Zavoli, tra i due contendenti il terzo ha già perso: Walter Veltroni


di Valeria Mencarelli

Se non ci fossero bisognerebbe inventarli. In fondo, rendono una cosa noiosa e spesso ripetitiva come la politica, uno show ricco di colpi di scena e cambiamenti inaspettati. In fondo, sono loro la vera anima di questa Italia e di questa sinistra in crisi d’identità: i traditori. Nel caso specifico, il senatore del Partito Democratico Riccardo Villari, da poco eletto Presidente della Commissione di Vigilanza della Rai. Grande impresa, la sua, quella di riuscire a sbaragliare la concorrenza del senatore Orlando, per cui aveva votato l’intera opposizione. Ma come ha fatto, se la Presidenza della Commissione è tradizionalmente nominata da quest’ultima? Basta ripensare l’intera faccenda all’italiana: qui ci si può facilmente vendere a buon prezzo. Ed è cosi, che il nuovo “furbetto di quartiere” di turno, con i voti dei parlamentari del Pdl ottiene la carica. Detto senza mezzi termini, con questa nomina, la maggioranza ha deciso chi avrà il compito di controllarla.


Le minacce dell’opposizione
Le reazioni all’interno del Pd e dell’Idv sono state infuocate. Veltroni ha chiesto le dimissioni di Villari, ha minacciato l’esclusione del senatore dal partito, si è preso gli insulti di vari esponenti di destra. Aleggia nell’aria la figura di De Gregorio, eletto presidente della commissione di Difesa del Senato allo stesso modo, e in seguito passato tra le fila avversarie. Quello che ha fatto la maggioranza è un “atto da regime”, come hanno affermato tutti gli esponenti dell’opposizione. Ma Villari non si è dimesso. Fermo sulle sue posizioni, nascondendosi dietro al “dovere istituzionale” di andare avanti, il senatore si è anche preoccupato di fare da paciere tra i suoi nuovi amici del Pdl e quelli vecchi del Pd. Al dovere morale di essere coerenti con le proprie idee, ovviamente, non ha il tempo di pensare.


Perché dovevamo aspettarcelo
Questo è l’ennesimo problema che si pone di fronte al partito di Veltroni, ormai sempre più lontano da quell’immagine forte che per qualche ora aveva illuso la platea del Circo Massimo solo poche settimane fa. Del resto, da un personaggio come Villari, che un maestro come Rutelli aveva accolto nella Margherita, e che, peggio ancora, è stato cresciuto da Mastella, non ci si poteva aspettare un comportamento diverso. È solo uno dei tanti politici di scarsa levatura di cui Veltroni si è voluto circondare, ed è solo l’ennesimo capolavoro di Berlusconi per poter governare indisturbato. Che senso ha usare come minaccia l’esclusione dal partito, se poi il partito stesso non riesce a rappresentare nulla di più di una debole alternativa?

Per approfondire
http://www.camera.it//_bicamerali/rai/home.htm.
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martedì 18 novembre 2008

Visti dalla Spagna: tra la strada e la stampa

da Madrid Roberto Scalia

La curiosità a volte spinge a voler conoscere un po’ più il mondo, ma anche come il mondo conosce il nostro Paese, così diventa interessante analizzare il modo in cui veniamo visti da qualche centinaio di chilometri di distanza. Fortunatamente gli spagnoli in questi mesi non smettono di ricordare come ci abbiano fatto fuori agli ultimi Europei e non tanto al Governo che in questo momento guida l’Italia. Ma dopo gli sfottò, le domande scomode arrivano: “Berlusconi que ha echo con los gitanos?” – Berlusconi cosa ha combinato con i rom?. E’ difficile capire la politica di Roma dalla capitale Spagnola Madrid, che pur essendo un luogo profondamente multiculturale come la città della lupa, non presenta quel clima quasi di superiorità della razza nei confronti di quella straniera. Qui gente di tutto il mondo, lavora, beve birra e mangia jamon e tortillas, guarda il calcio e il futbol da sala, apprezza Valentino Rossi e va al concerto degli Acdc. Semplicemente vive. Qui si avverte di meno quel senso di populismo e di apparente superiorità che c’è in Italia e soprattutto non si avverte lo stesso assordante rumore di fondo della politica italiana. Forse perché i politici sono più seri o forse perché cercano di dialogare con tutti prima di prendere una decisione.

L’occhio della stampa


Intanto, però la stampa qualificata come ad esempio El Pais parla dell’Italia sempre con toni molto pesanti. Se da una parte il corrispondente da Roma del Periodico Miguel Mora, elogia e stima gli scrittori italiani Andrea Camilleri e Roberto Saviano, dall’altra parte si può leggere come il ministro Roberto Maroni venga definito senza mezzi termini xenofobo, tutt’altro che un complimento. Ma se è facile evincere che i giornali spagnoli non condividono la politica di Silvio Berlusconi, si deve anche notare che Jose Luis Rodriguez Zapatero non è definito quel grande statista che dal nostro paese sembra. In queste settimane El Pais ha stretto la sua attenzione attorno agli scioperi degli studenti, dei professori e di tutte le organizzazioni che si battono contro la proposta del Ministro Gelmini, la quale viene ricordata qui semplicemente come una raccomandata, riprendendo un articolo del Corriere della Sera di Gian Antonio Stella che aveva sottolineato la facilità di superamento dell'esame di Stato per la professione di avvocato presso la Corte d'Appello di Reggio Calabria nel 2002, dell’allora neo laureata in Giurisprudenza. Ma aldilà della scuola, sono anche altri i provvedimenti che fanno discutere, tra quelli adottati.
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lunedì 17 novembre 2008

La natura dell’Onda in ciò che non viene raccontato. Cronaca di dettagli e analisi di un movimento


di Simone Conte

“Ragà qualcuno che fa il cordone, dai su”. Chi ha partecipato ad una delle manifestazioni che da più di un mese a questa parte contestano il Decreto Gelmini, ha sentito questa frase. Il cordone serve a tenere insieme il corteo, ad evitare allo stesso tempo infiltrazioni sgradite e fuoriuscite di gruppi più o meno nutriti dal percorso predefinito. Il cordone è semplicemente una catena umana di persone che si tengono per mano, ma è uno dei simboli dello spirito dell’Onda. Perché darsi un servizio d’ordine significa essere assolutamente determinati a perseguire l’obiettivo che ci si è dati, che è quello di far passare un messaggio ed uno solo: noi non siamo d’accordo. Ma dato che i media non vedono l’ora di parlare d’altro, un po’ perché gli scontri fanno più audience e un po’ perché così giornalisti pigri e venuti su a pane e comunicati stampa, non devono studiarsi il testo della legge 133, l’Onda si è organizzata per non farsi fregare. E allora anche se poi nessuno ha voglia di farlo, perché a fare cordone dopo un po’ ti fanno male le braccia, non puoi fumare una sigaretta, e in caso di pericolo sei il primo che ce le prende, a turno lo fanno più o meno tutti.
Questo i tg non lo raccontano. Come non raccontano che se a qualcuno viene in mente di avvicinarsi ai muri con le bombolette il corteo lo subissa di fischi e gli grida di non farlo, o se qualcuno accende un fumogeno e lo butta in cassonetto, subito arrivano due o tre persone con le bottiglie d’acqua per spegnerlo, e poi è meglio che chi ci ha provato si dilegui se non vuole prendersi uno schiaffo. Ma l’immagine più bella, che ho visto per la prima volta davanti al Ministero della Pubblica Istruzione, e di nuovo venerdì scorso dietro Piazza Monte Citorio (si, si scrive staccato, non fate i saputelli che poi rischiate la figuraccia) è stata quella di un cordone di studenti schierato davanti alla polizia, ma per proteggerla. Per evitare che la stupidità di pochi mettesse in ombra il buonsenso di tutti, vanificando la costanza, la determinazione e il senso di responsabilità che stanno caratterizzando la protesta.

Questo movimento non è il nuovo sessantotto, come qualcuno troppo frettolosamente ha voluto etichettare, nessuno chiede il voto politico, si chiedono chiarezza, programmazione a lungo termine, risorse. Ed è bene fare una distinzione, quest’Onda non è apolitica, ma apartitica. Perché fare quello che stanno facendo centinaia di migliaia di ragazzi in tutto il Paese è politica allo stato puro, portare avanti una linea concreta e mirata ad avversare una serie di problematiche connesse tra loro e determinate dall’attuazione di provvedimenti economici ben delineati, sacrificare il proprio tempo libero, farsi venire il mal di schiena a forza di dormire sul pavimento, farsi 10 ore di treno per essere in piazza, ed esserci senza nessuna bandiera, questa è politica. E la politica dei partiti, invece di offendersi quando i cortei gridano “Noi non siamo rappresentati”, dovrebbe chiedersi il perché.

Questo movimento sta colmando un vuoto, e lo sta facendo partendo dal basso, senza le pretese rivoluzionarie del direttismo di Grillo. Qui si mira ad obiettivi ben precisi, e lo si fa in prima persona perché nessuno tra chi viene pagato per farlo si è reso portatore di questo messaggio. Nel momento in cui nessuno si è fatto carico delle istanze di un gruppo di persone, queste hanno deciso di fare da sole. Lo ripeto, questa è politica, in una delle sue forme più alte, perché scevra del carico di ideologie, populismi, demagogie, affarismi e connivenze della Politica che si è arrogata il diritto della P maiuscola.

Per approfondire:
Uniriot
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sabato 15 novembre 2008

Il paese che dice no alle donne


di Serena Rosticci

Le donne devono stare a casa a fare la calzetta. Le donne non sanno guidare. La donna è preda, l’uomo cacciatore. E ci sarebbero altre centinaia di frasi come queste, tante da poter riempire pagine e pagine. Viviamo nel 2008, in un mondo dove ormai le donne si candidano a presidentesse di uno stato e sono cancelliere di altri. Ma fino a che punto queste frasi sono luoghi comuni in un paese come l’Italia?.

L’approvazione della legge n.66 del 15 febbraio 1996 ha certo rappresentato un’importante innovazione legislativa in materia di violenza contro le donne. Tale legge qualifica questa violenza come delitto nei confronti della libertà personale, rendendo l’opinione pubblica più sensibile nei confronti di questo tema e permettendo l’emanazione di sentenze più adeguate alla natura e alla gravità del problema.

Alla ricerca della parità di diritti

La violenza contro il “sesso debole” nasce certo nelle mura domestiche ma ha molte facce, tra cui quella istituzionale come il governo in carica ultimamente sta dando prova. Con le leggi 133 e 137 da poco approvate, non si cerca infatti soltanto di abolire il diritto all’istruzione, ma si va anche contro le donne: migliaia di insegnanti - che in Italia per la maggior parte sono di sesso femminile - perderanno il posto di lavoro e verrà meno un sistema educativo - il tempo pieno - che sostiene le donne consentendo loro di lavorare e conseguentemente di avere maggiore libertà e autonomia. Viene allora da chiedersi se il nostro paese sia davvero così mentalmente aperto verso la parità di diritti di genere come vuol far credere. Molte ragazze, adulte, lavoratrici e madri con questo governo si vedranno chiuse in casa costrette a lavorare gratuitamente per badare ad anziani e bambini, economicamente dipendenti dall’uomo.

Le donne scendono in piazza
In un anno gli attacchi alla libertà e all’autodeterminazione femminile sono aumentati esponenzialmente e le leggi sopra citate ne sono solo un esempio. Sarebbero infatti da ricordare il blitz della polizia al policlinico di Napoli per il presunto aborto illegale e le aggressione contro le lesbiche che sempre più spesso avvengono nel nostro paese. Violenze legittimate e incoraggiate dal governo che vuole imporre modelli di comportamento normalizzati in nome del “decoro” e della “dignità”. Va poi citato il disegno di legge Carfagna che vuole criminalizzare le prostitute ed imporre linee guida per tutte le donne. Il 22 novembre ci sarà un corteo di donne autorganizzato che scenderà in piazza contro la violenza maschile per ricordare che il “gentil sesso” non si può dividere ne in buone e cattive, ne in sante e meretrici, ne in vittime e colpevoli: le donne sono tutte libere.
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venerdì 14 novembre 2008

Vi proteggiamo noi

Un gruppo di manifestanti fa cordone davanti alla polizia schierata in assetto antisommossa, per evitare che qualche manifestante cretino offra pretesti per parlare di scontri, e non dell'unico motivo per il quale siamo qui. Un'immagine bellissima che testimonia la maturità e la consapevolezza di questo movimento. Continua...