di Michela Truncellito e Serena Rosticci
Siamo nel 2008 ma il tema della parità dei sessi è ancora una questione scottante. Spesso sembra di averla raggiunta, ma poi basta guardarsi seriamente intorno per accorgersi che forse non è proprio così. Per questo la redazione di Sferalab ha deciso di approfondire l’argomento osservando il contesto socio-culturale in cui viviamo e ascoltando il parere di persone esperte dell’argomento. Si è quindi deciso di sentire cosa pensa della situazione femminile attuale la Prof.ssa Maria Serena Sapegno, docente di Studi di Genere all’Università La Sapienza di Roma, sulle dinamiche e problematiche legate alle questioni di genere.
Potrebbe introdurre ai lettori cosa s’intende per Studi di Genere?
Gli Studi di Genere, che io preferirei chiamare appunto Studi delle Donne e di Genere per focalizzare subito l’attenzione, sono il risultato degli ultimi trenta anni di ricerche e di studi del pensiero delle donne. Hanno avuto origine alla fine degli anni ’60 in America e nel Nord Europa, partendo dall’indagine e dalla ricerca nei campi della letteratura, della storia e della filosofia. Introducono un modo di pensare e ragionare più complesso che include diversi punti di vista: si entra in relazione con il mondo da un punto di vista plurale, attraverso dei percorsi multi e inter disciplinari. Nell’Europa del Sud, e in particolare in Italia, che è un paese per certi versi più arretrato e misogino, tutto ciò fa fatica ad arrivare, perché questo tipo di approccio alla realtà attuale e storica, nasce innanzitutto da un pensiero politico femminista; ma anche perché c’è stata in passato e ancora esiste un’opposizione di una parte del movimento alla istituzionalizzazione degli studi. La storia del pensiero delle donne ha un percorso lungo; si era già giunte a molte conclusioni in passato, ma in qualche modo sono andate perse nel tempo, in quanto le donne che arrivavano a dati risultati non avevano il permesso di scrivere la storia.
Qual è il posizionamento degli studi di genere all’interno delle Università?
Alle istituzioni accademiche non interessa particolarmente l’insegnamento degli Studi di Genere, in quanto è una disciplina che non corrisponde a nessuno spazio preciso, né ha termini di riconoscimento accademico o di prestigio. Nasce a tal proposito la rete europea Athena, che collega oltre cento istituti universitari, che fanno didattica e approfondimento di studi di genere. Qui a Scienze Umanistiche una caratteristica delle nostre lezioni di “Introduzione agli Studi di Genere” è che vengono svolte a più voci: abbiamo infatti organizzato un modulo che si sviluppa attraverso la collaborazione di tre persone interne all’università e due giovani donne volontarie esterne. È una tipologia d’insegnamento non utilizzata molto nelle università, ma molto apprezzata dagli studenti che hanno la possibilità di ascoltare voci ed esperienze diverse e di lavorare in gruppi.
Emerge così una prima problematica che è quella inerente la trasmissione. Non si tratta infatti di conoscenze che si possono puramente trasmettere, non è mera informazione, questo approccio ha senso soltanto se viene attualizzato in ogni momento. Per questo io da insegnante non posso limitarmi alla trasmissione di un sapere consolidato più o meno libresco, ma devo necessariamente entrare in una relazione, allo scopo di far divenire vive queste tematiche; secondo me ciò vale per tutte le discipline d’insegnamento ma in modo particolare in questo campo poiché ha alla base un elemento politico e personale e questi due fattori non sono scindibili nella politica della donne, sono in gioco entrambi.
Perciò se da una parte non ci può sottrarre a una quantità di materiale che va conosciuto, quindi occorre lo studio, l’informazione, l’intelligenza, l’applicazione, la fatica, dall’altra però queste dinamiche e argomentazioni vanno seriamente messe al centro di un tavolo a cui poi si discute a più voci, con domande necessariamente diverse, perché altrimenti nascerebbero morte.
Cosa comporta per un docente questo insegnamento, e quale risposta trova da parte degli studenti?
Per insegnare studi delle donne e di genere bisogna avere passione e una forte capacità comunicativa, altrimenti quando ci si scontra con le resistenze che naturalmente esistono poiché si vanno a toccare dinamiche molto delicate, non è semplice. Infatti entrare in un’ottica di genere significa aprire delle contraddizioni, mettere in discussione alcune certezze, è faticosissimo interrogarsi sulla società in cui si vive, sull’immagine di femminilità o di mascolinità che ci si è costruiti: quando si vanno a togliere le certezze non si sa bene quel che resta, ognuno poi deve trovarsi un modo suo, costruito in relazione alla propria persona, autentico, di essere uomo o donna, maschio o femmina. Infatti, nonostante questi studi nascano dal processo di pensiero delle donne, anche i ragazzi ne sono affascinati e interessati, e in vari modi viene introdotta l’esigenza di costruire anche un nuovo ruolo maschile. Finché si vive nel mondo “dorato” delle Università e della scuola ci si rende conto che fuori pochissimo è cambiato, la vera batosta, la ricevono soprattutto le ragazze, quando iniziano a cercare lavoro e si rendono conto che sono più brave, hanno voti più alti, però lavoro per loro ce n’è meno, ti fanno firmare un documento in cui accetti di non fare figli per i prossimi cinque anni e così via. È in quel momento che si rendono davvero conto delle dinamiche interne al nostro paese: nel mondo universitario vige il merito, se tu sei brava/o e studi più o meno te la cavi, ma fuori non vigono le stesse regole, fuori c’è la legge della giungla. Io comprendo pienamente le resistenze, l’affermare che ormai c’è l’emancipazione, si va in giro da sole, si è autonome, anch’io la pensavo così a vent’anni, ed era in qualche modo vero, ma in fondo il problema permaneva e permane, per questo risulta essenziale questo approccio di lettura della realtà, per andare oltre, per capire profondamente e cambiare.
Gli Studi di Genere, che io preferirei chiamare appunto Studi delle Donne e di Genere per focalizzare subito l’attenzione, sono il risultato degli ultimi trenta anni di ricerche e di studi del pensiero delle donne. Hanno avuto origine alla fine degli anni ’60 in America e nel Nord Europa, partendo dall’indagine e dalla ricerca nei campi della letteratura, della storia e della filosofia. Introducono un modo di pensare e ragionare più complesso che include diversi punti di vista: si entra in relazione con il mondo da un punto di vista plurale, attraverso dei percorsi multi e inter disciplinari. Nell’Europa del Sud, e in particolare in Italia, che è un paese per certi versi più arretrato e misogino, tutto ciò fa fatica ad arrivare, perché questo tipo di approccio alla realtà attuale e storica, nasce innanzitutto da un pensiero politico femminista; ma anche perché c’è stata in passato e ancora esiste un’opposizione di una parte del movimento alla istituzionalizzazione degli studi. La storia del pensiero delle donne ha un percorso lungo; si era già giunte a molte conclusioni in passato, ma in qualche modo sono andate perse nel tempo, in quanto le donne che arrivavano a dati risultati non avevano il permesso di scrivere la storia.
Qual è il posizionamento degli studi di genere all’interno delle Università?
Alle istituzioni accademiche non interessa particolarmente l’insegnamento degli Studi di Genere, in quanto è una disciplina che non corrisponde a nessuno spazio preciso, né ha termini di riconoscimento accademico o di prestigio. Nasce a tal proposito la rete europea Athena, che collega oltre cento istituti universitari, che fanno didattica e approfondimento di studi di genere. Qui a Scienze Umanistiche una caratteristica delle nostre lezioni di “Introduzione agli Studi di Genere” è che vengono svolte a più voci: abbiamo infatti organizzato un modulo che si sviluppa attraverso la collaborazione di tre persone interne all’università e due giovani donne volontarie esterne. È una tipologia d’insegnamento non utilizzata molto nelle università, ma molto apprezzata dagli studenti che hanno la possibilità di ascoltare voci ed esperienze diverse e di lavorare in gruppi.
Emerge così una prima problematica che è quella inerente la trasmissione. Non si tratta infatti di conoscenze che si possono puramente trasmettere, non è mera informazione, questo approccio ha senso soltanto se viene attualizzato in ogni momento. Per questo io da insegnante non posso limitarmi alla trasmissione di un sapere consolidato più o meno libresco, ma devo necessariamente entrare in una relazione, allo scopo di far divenire vive queste tematiche; secondo me ciò vale per tutte le discipline d’insegnamento ma in modo particolare in questo campo poiché ha alla base un elemento politico e personale e questi due fattori non sono scindibili nella politica della donne, sono in gioco entrambi.
Perciò se da una parte non ci può sottrarre a una quantità di materiale che va conosciuto, quindi occorre lo studio, l’informazione, l’intelligenza, l’applicazione, la fatica, dall’altra però queste dinamiche e argomentazioni vanno seriamente messe al centro di un tavolo a cui poi si discute a più voci, con domande necessariamente diverse, perché altrimenti nascerebbero morte.
Cosa comporta per un docente questo insegnamento, e quale risposta trova da parte degli studenti?
Per insegnare studi delle donne e di genere bisogna avere passione e una forte capacità comunicativa, altrimenti quando ci si scontra con le resistenze che naturalmente esistono poiché si vanno a toccare dinamiche molto delicate, non è semplice. Infatti entrare in un’ottica di genere significa aprire delle contraddizioni, mettere in discussione alcune certezze, è faticosissimo interrogarsi sulla società in cui si vive, sull’immagine di femminilità o di mascolinità che ci si è costruiti: quando si vanno a togliere le certezze non si sa bene quel che resta, ognuno poi deve trovarsi un modo suo, costruito in relazione alla propria persona, autentico, di essere uomo o donna, maschio o femmina. Infatti, nonostante questi studi nascano dal processo di pensiero delle donne, anche i ragazzi ne sono affascinati e interessati, e in vari modi viene introdotta l’esigenza di costruire anche un nuovo ruolo maschile. Finché si vive nel mondo “dorato” delle Università e della scuola ci si rende conto che fuori pochissimo è cambiato, la vera batosta, la ricevono soprattutto le ragazze, quando iniziano a cercare lavoro e si rendono conto che sono più brave, hanno voti più alti, però lavoro per loro ce n’è meno, ti fanno firmare un documento in cui accetti di non fare figli per i prossimi cinque anni e così via. È in quel momento che si rendono davvero conto delle dinamiche interne al nostro paese: nel mondo universitario vige il merito, se tu sei brava/o e studi più o meno te la cavi, ma fuori non vigono le stesse regole, fuori c’è la legge della giungla. Io comprendo pienamente le resistenze, l’affermare che ormai c’è l’emancipazione, si va in giro da sole, si è autonome, anch’io la pensavo così a vent’anni, ed era in qualche modo vero, ma in fondo il problema permaneva e permane, per questo risulta essenziale questo approccio di lettura della realtà, per andare oltre, per capire profondamente e cambiare.
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