di Simone Conte
Il tanto atteso Supertuesday delle primarie Usa si è chiuso con un sostanziale pareggio in casa Democratica. Se Hillary Clinton si è aggiudicata il pezzo grosso (la California) e in generale un maggior numero di delegati da portare al congresso che deciderà il candidato del partito, Barack Obama ha vinto in 13 stati contro gli 8 dell’avversaria. Ma si sa, in politica i voti non solo si contano: si pesano. E il risultato di Obama, sebbene minore in termini numerici (anche se c’è ancora confusione sui numeri definitivi e il gap di delegati tende a diminuire), rischia di essere più pesante di quello che sembra. Perché un anno fa, ma anche 6-8 mesi fa se vogliamo, questo senatore nero non era nessuno.
Un supporto concreto.
Obama si presentava come un candidato leggero, e gravato da due fattori deterrenti nella corsa alla Casa Bianca: la giovane età e il colore della pelle. Ma gli Stati Uniti si sono dimostrati meno superficiali del previsto, e sono riusciti ad andare oltre l’apprenza, non hanno avuto paura dell’uomo nuovo. Hanno ascoltato le sue parole, hanno valutato le sue azioni, hanno notato la sua coerenza (è l’unico candidato che si è sempre dichiarato contrario alla guerra in Iraq), hanno visto tutto questo, ed è successa una cosa importante, che va aldilà delle parole, delle intenzioni di voto, effimere per loro stessa natura. Gli americani hanno iniziato a dargli il loro denaro. Obama ha ricevuto una quantità impressionante di piccole donazioni da privati, riuscendo in questo modo a fronteggiare la macchina da guerra dei Clinton, ma al contrario di essi finanziandosi non esclusivamente attraverso le potenti lobby statunitensi. Un flusso diversificato che gli permetterà di avere le mani più libere di Hillary su diverse questioni.
Forma e sostanza.
Questo Big Tuesday doveva essere il giorno della consacrazione della Clinton, il giro di boa che il candidato debole non sarebbe stato in grado di fare, e invece la partita rimane apertissima, grazie alla rimonta di un uomo che alle difficoltà, ai dubbi e alle perplessità ha dato risposte concrete, ma anche una formidabile veste comunicativa: quel “Yes we can” che rischia di entrare nella famiglia delle frasi a stelle e strisce consegnate alla storia, tra un “I have a dream” e un “Ich bin ein Berliner”.
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