venerdì 31 ottobre 2008

In piazza, senza bandiere. Diario di una giornata di protesta.


di Veronica Adriani

Quando arrivo in Piazza Indipendenza, la manifestazione è già iniziata da un pezzo. Sono le 11:00 e il corteo di circa diecimila studenti è partito dalla Sapienza almeno un’ora prima. La fila è già talmente lunga che non se ne vedono le estremità: qualcuno sostiene che la coda stia procedendo a piedi sulla corsia di emergenza del Raccordo, e che la testa sia a già a Piazza del Popolo. Una cosa però la noto immediatamente: non ci sono bandiere. A parte un aspirante economista avvoltolato in una bandiera arcobaleno che riporta la scritta “pace”, non si vedono simboli di sorta, soprattutto di partito, niente bandiere su cui troneggi imperante il volto del Che, niente dichiarazioni di voto esplicite. Il “non ci rappresenta nessuno”, ribadito anche da uno degli striscioni, sembra essere sentito. E io non posso che essere d’accordo.

Il corteo inizialmente procede lento. Lungo via Cavour tante facce iniziano a fare capolino dalle finestre, qualcuno esce sui balconi. Molti curiosi fanno foto, altri chiedono i motivi della protesta. Tutti quelli che ricevono i volantini informativi distribuiti lungo il percorso li leggono più che attentamente. Un signore di mezz’età si affaccia alla finestra e agita in aria un foglio A4 che riporta a penna la scritta “non mollate”. Al grido di “scendi giù, scendi giù, manifesta pure tu” lui sorride e fa cenno di no. Ci pensa un attimo e poi invita la folla: “salite voi”.
Arrivati a Piazza Venezia il corteo si fa più fluido. L’accesso a Via del Corso è bloccato dalle camionette della polizia. Ormai è chiaro che arrivare a Piazza del Popolo non è mai interessato a nessuno: l’obiettivo è Viale Trastevere, dove ha sede il Ministero. Il corteo procede verso via delle Botteghe Oscure. Una quindicina di “Giovani Comunisti” muniti di striscione e bandiere provano ad unirsi, ma vengono invitati da un coro a mettere via le bandiere oppure ad allontanarsi. Optano per la prima e si uniscono. Il corteo prosegue.

Mentre Via Cavour è abituata al passaggio dei manifestanti da tempo immemore, ed ogni corteo è solo fonte di curiosità e malcelata solidarietà da parte degli involontari spettatori, via delle Botteghe Oscure, nobile ritrovo di turisti e sede di uffici prestigiosi, è diffidente. In pochi aprono le finestre, ma tutti osservano la folla nascosti dietro ai vetri. A Largo di Torre Argentina due ragazzi vestiti da Berlusconi e Gelmini vengono tempestati di foto e insulti bonari. Scendendo dal muretto, Berlusconi si toglie la maschera e dice all’amico-Gelmini: “’he dici, l’hanno ‘apito ‘he siamo di Livorno?”.

Alle 14:00 circa il corteo arriva al Ministero e lo circonda. La Polizia, che durante il percorso era stata pressoché invisibile, la si ritrova tutta schierata, in tenuta antisommossa, sulla scalinata d’accesso. Io mi trovo dietro all’edificio, dove ciascun gruppo sta appendendo il proprio striscione alle inferriate. I ragazzi gonfiano, lanciano in aria e poi fanno scoppiare una nube di palloncini arancioni, mentre i meno previdenti scattano alla ricerca di un panino da mangiare per pranzo. C’è chi fa le foto. C’è chi fa partire i cori. C’è chi fischia. C’è chi fa le coccole al cane mentre sta seduto sul marciapiede. Si aspetta, non si sa bene cosa né per quanto, ma si aspetta.

Verso le 14:20 l’atmosfera si rompe: passa tra la folla il “Presidio Antifascista” di Pescara (così dichiara il portavoce al microfono), un camioncino che spara dalle casse rivolte all’esterno musica reggae a milioni di decibel. Un ragazzo prende il microfono e ricorda che il giorno prima “quei buffoni del governo c’hanno mandato i fasci a menare i ragazzini di quattordici anni”. Continua ad imprecare contro il governo e la destra manifestando “solidarietà per la chiusura dell’Horus”, dispensando nel suo discorso “compagni” e “fascisti” ad ogni pié sospinto, e ignorando totalmente gli altri manifestanti, i quali nel frattempo chiedono di evitare discorsi politici. Li liquida con un “se c’è qualcuno che non è d’accordo la cosa non ci riguarda”, fino a quando, interrotto da fischi e cori, non è costretto a lasciare il microfono a chi chiede di “non fomentare l’odio e chiudere il discorso”, tra gli applausi della folla. Riparte la musica e si crea un capannello di ragazzi (studenti?) che balla davanti al camioncino con le birre in mano. I passanti non sembrano più né curiosi né solidali, e la folla stessa del manifestanti inizia a diradarsi. Qualcuno raggiunge un altro corteo a Piramide, qualcuno torna a casa.

Io vado via, con un po’ di amaro in bocca. Tornando indietro lungo la strada trovo i segni del passaggio del corteo: la statua del Belli ora ha in mano una scatoletta di cartone per la “raccolta fondi per la scuola pubblica”, gadget tanto ironico quanto di facile rimozione, mentre molti muri sono stati imbrattati con scritte di vario genere (tra cui un “no alla meritocrazia” che ancora fatico a capire), e dappertutto ci sono bottiglie di vetro, lattine e cartacce. Inevitabilmente inizio ad immaginare come tutto questo apparirà domani sui giornali e in televisione, e agli appellativi che verranno rivolti a me e ai miei colleghi, da “vandali” a “facinorosi” a “scioperati” (naturale evoluzione dei bamboccioni di Padoa Schioppa) e via discorrendo. Mi viene un po’ di tristezza, ma penso che una cosa così, ultimi trenta minuti a parte, non l’ho mai vista. E tutto sommato non mi dispiace affatto.

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