martedì 15 aprile 2008

Intervista alla tibetologa Elena De Rossi Filibeck. Prima parte: analisi politica.

di Gianni Galleri e Serena Rosticci


Per capire che cosa sta succedendo in Tibet, abbiamo intervistato la Professoressa Elena De Rossi Filibeck docente di Tibetologia all'Università di Roma “La Sapienza”. Abbiamo cercato prima di individuare i nodi sociali e politici che hanno scatenato le ultime proteste e poi di risalire storicamente ai fatti di questi giorni.

I media ci hanno presentato la rivolta, i monaci, le strade di Lhasa in fuoco. Ma l'impressione che ci arriva dalla televisione è che da un momento all'altro la situazione si sia infiammata. Possibile che non ci sia un contesto dietro, una storia dalla quale emergono gli scontri?
La protesta tibetana non nasce oggi. Le Olimpiadi stanno agendo da cassa di risonanza, ma le tensioni e gli scontri arrivano da più lontano. Un esempio può aiutare a capire. Nel 1987, la Cina autorizzò l'ingresso ai turisti in Tibet poichè vedeva nel turismo una importatnte fonte di reddito.Le rivolte che scoppiarono a Lhasa in quell'anno ebbero come testimoni proprio i turisti occidentali che si trovavano nel paese.Le proteste iniziate nel 1987 durarono fino al 1989 e si conclusero con l'imposizione della legge marziale.
Le manifestazioni di questi giorni non nascono quindi dal niente ma da una situazione di disagio che dura da molto tempo, anche da prima del 1987.

Quali sono i principali punti di scontro fra Tibet e Cina?
Per non parlare del fatto che i tibetani sono un popolo religioso e i comunisti cinesi professano l'ateismo,i punti di maggior incompatibilità fra la cultura tibetana e la politica cinese sono principalmente tre, ovvero: la collettivizazione della terra, l’immigrazione cinese e la sedenterizzazione forzata dei nomadi. Storicamente, infatti, i tibetani hanno sempre avuto a loro disposizione un pezzo, per quanto piccolo di terra, che potesse servire per il sostentamento della famiglia. Con i processi di collettivizazione tutto questo viene spazzato via. Riguardo al secondo punto il governo centrale ha favorito continui flussi di immigrati che dalla Cina si stanziaano per periodi più o meno lunghi in Tibet e questa immigrazione forniva e fornisce la totalità dei quadri, relegando così a posizioni di secondo piano i locali.Per dovere di cronaca ricordiamo che per assumere una posizione di rilievo è necessario essere iscritti al partito comunista e parlare il cinese.

Potrebbe brevemente chiarirci il ruolo del Dalai Lama?
Il Dalai Lama era il capo temporale e spirituale del Tibet, quello attuale è il quattordicesimo.Rimane tale per il suo governo in esilio. Si differenzia dal Panchen Lama, che rappresenta la reincarnazione del Buddha Amithaba e da un punto di vista religioso si pone in una posizione di maggiore importanza rispetto al Dalai Lama.

Cosa c'è da aspettarsi? Quali sono le prospettive di sviluppo?
Le prospettive di sviluppo della situazione sono tutte in mano alla Cina. Ricordiamo che è dal 1974 che il Dalai Lama non chiede più l'indipendenza, ma solo una maggiore autonomia per quanto riguarda le libertà della popolazione tibetana. Tuttavia se la Cina non entrerà nell'ottica di allentare la pressione di polizia e di controllo, la comunità internazionale potrà fare bene poco. C'è però da ricordare che un'apertura della Cina è davvero difficile perché questa teme la possibilità di un dilagare delle richieste di autonomia e libertà in altre regioni, come ad esempio nella regione del Xinjiang popolata da musulmani.

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